Introduzione
Negli ultimi anni in Italia l’interesse dei media studies si è rivolto anche ad un prodotto culturale che, per lungo tempo, è stato impegnato a lottare ferocemente con la cosiddetta ‘cultura alta’, faticando a trovare un suo spazio autonomo all’interno dei paradigmi in voga: la forma-canzone. La ricerca intorno ad essa, in Italia, ha preso il via dalle riflessioni pionieristiche di Umberto Eco (1964: 277-296), le quali hanno almeno in parte scardinato il perdurante pregiudizio della Scuola di Francoforte (Adorno 1938), che come una spada di Damocle ha influenzato in negativo, per almeno tutta la prima metà del Novecento, gli studi sulla canzone; dopo un curioso e precoce interesse da parte dei linguisti, declinatosi soprattutto in chiave sociolinguistica (Bandini 1976, De Mauro 1977),1 e un successivo interesse da parte degli studiosi di popular music (sintetizzato in Fabbri 2008, La Via 2017, Tomatis 2019), negli ultimi due decenni si sono occupati di canzone anche i film studies (Arcagni 2006, Locatelli e Mosconi 2011, Buzzi 2013, Bisoni 2020, Corbella 2020), andando così a colmare un vuoto dovuto soprattutto ai lavori di carattere musicologico applicati al cinema, nei quali la canzone è stata evitata a piè pari non venendo mai considerata alla stregua della ‘vera’ musica da film, sulla base di un pregiudizio estetizzante ben esemplificato dalle parole del musicologo Sergio Miceli (1990: 45).
La canzone, compresa quella cosiddetta d’autore, non ha diritto di cittadinanza all’interno di una storia della musica o dell’estetica musicale, rientrando semmai in una storia del costume e, attraverso questo, molto raramente e con motivazioni diverse – nessuna delle quali di natura prettamente musicale –, nella storia della cultura.
Tuttavia, con gli anni Novanta iniziano ad essere condivisi punti di vista e approcci differenti, che studiano la relazione tra cinema e canzone non considerandola soltanto da un univoco punto di vista di natura estetica, ma con l’obiettivo di “constatare punti di contatto, sovrapposizioni e spazi di coesistenza” tra due “strani oggetti multidimensionali” (Fabbri 1990). Con gli anni Duemila tali approcci si sedimentano e diventano appannaggio anche della semiotica che, prima nella sua declinazione più tradizionale e letteraria (Jachia 1998, Talanca 2017), poi successivamente in quella più moderna (legata alla mediologia – Eugeni 2010: 247-264, Sibilla 2018), inizia ad interessarsi specificatamente alla forma-canzone, partorendo alcuni contributi interessanti sull’argomento proprio nell’intersezione con i film studies (Bisoni 2020, Corbella 2020), ed indagando la declinazione formale della testualità canzonettistica2 nell’incontro con il linguaggio audiovisivo del cinema. Nonostante questa molteplicità di approcci, poco o nulla si è detto sull’eventuale ruolo che il cinema e gli altri media avrebbero (o hanno) avuto nell’impatto sulla forma-canzone, sia su un piano meramente contenutistico, che su quello espressivo e formale, di contro invece a quanto è stato osservato nell’analisi delle reciproche intersezioni tra cinema, letteratura (Manzoli 2003, Giovannetti 2004) e altri media (Dusi 2014).
Il presente contributo3 vuole quindi re-impostare, alla luce delle nozioni di intermedialità e rimediazione, tale questione, cercando di indagare, attraverso l’analisi di un case study ritenuto significativo, l’influenza che i media, e in particolare il cinema, medium per eccellenza che “vive e promuove traduzioni intersemiotiche, reinterpretazioni e rimediazioni” (Dusi 2014: 15), hanno avuto nello sviluppo italiano della forma-canzone, cercando così di dimostrare l’intuizione, a questo punto profetica, dello storico dell’arte Arnold Hauser, il quale (1951: 465) profetizzò un Novecento artistico tutto vissuto “nel segno del film”: da un lato, il cinema come medium dotato di caratteristiche tecniche perfettamente adatte per poter rendere in immagini e suoni quella rivoluzione del tempo, dello spazio e del racconto che aveva sconvolto prima la letteratura, e poi il paradigma dell’arte tout court (non a caso, tra gli esempi di Hauser c’è Ėjzenštejn); dall’altro, il cinema come modello per altre categorie estetiche, come appunto la forma-canzone, soprattutto nella sua accezione moderna (il punto di rottura è la vittoria di Modugno al Festival di Sanremo con Nel blu, dipinto di blu, nel 1958, cfr. Jachia 1998: 10; Fabbri 2008: 87-88;), che quindi ne risulterebbe influenzata su più piani.
1 Rimediazione e intermedialità
Il concetto di rimediazione è teorizzato da David Bolter e Richard Grusin (1999) alla fine degli anni Novanta, sulla scorta di alcune osservazioni sull’ibridazione dei media già elaborate precocemente da Mc Luhan (2008: 70), e sottintende quell’ormai ampissima serie di pratiche (dall’era della convergenza a quella post-mediale) in cui alcuni materiali transitano e mutano da un media all’altro, adattandosi di volta in volta alle specifiche testuali di ogni medium. Il concetto di intermedialità, ereditato dallo strutturalismo linguistico, è invece stato abbondantemente indagato sia negli studi semiotici (Dusi 2015: 15-24) che in quelli letterari (Vittorini 2019), che ne hanno enumerato definizioni, specificità e applicazioni da più punti di vista (mediale, contenutistico, narratologico, etc.). Si cercherà ora di dimostrare come tale concetto possa risultare decisamente utile anche nella sua applicazione alla forma-canzone, per più motivi: innanzitutto, l’oggetto-canzone è per sua natura “un’entità narrativa migrante e transmediale” (Spaziante 2013: 70), poiché non è dotato di un proprio medium, e non ne predilige alcuno nello specifico, a maggior ragione da quando i supporti fisici hanno lasciato spazio a quelli esclusivamente digitali. Non essendo dotata di un suo medium, la canzone è di per sé un “oggetto intermediale” (Sibilla 2018: 130), perché può transitare da un medium all’altro e, anzi, si è configurata nella sua essenza, lasciandosi dietro le spalle una lunghissima tradizione orale, proprio grazie alla possibilità di riprodursi tecnicamente su più media, senza i quali dunque non potrebbe neanche esistere come prodotto; non da ultimo, la canzone è anche “un’unità narrativa” (Sibilla 2018: 114), una sorta di testo-base (spesso inserito in entità macro-testuali sovrastanti: album, singoli, videoclip, film, etc.) dotato della funzione narratologica tipica delle forme estetiche di carattere non musicale.
Dato poi che “nessun linguaggio si sviluppa lontano dagli altri e da essi indipendente, [anzi, che] il vero motore della sua evoluzione è proprio l’incessante processo di traduzione intersemiotica degli altri linguaggi” (Zecca 2008: 40), anche il linguaggio multimediale della canzone potrebbe essersi sviluppato, almeno in Italia, in stretta correlazione non solo con quello letterario-poetico (attingendo per altro ad un repertorio ormai rifiutato nell’uso dai veri poeti contemporanei, cfr. Antonelli 2010: 91), ma anche con il linguaggio del cinema e degli altri media, come si cercherà di dimostrare nel case study selezionato. Ragionare sulle possibilità intermediali della forma-canzone vuol dire dunque riflettere sostanzialmente: 1) sui testi della forma-canzone, perché, pur nella consapevolezza della centralità del contesto nell’ambito della musica pop, come comprovato dalla sociosemiotica (Spaziante 2007 e 2016, Tomatis 2019), resta comunque “il testo in sé a fornire i caratteri peculiari” (Spaziante 2007: 39) di un fenomeno culturale musicale o della singolarità di un determinato artista;4 2) spingendosi oltre il testo, secondo quanto teorizzato negli ultimi decenni dagli studi semiotici e sociosemiotici (a partire proprio da quelli applicati ai film studies, cfr. Villa 2006: 28-29), spostando dunque “l’attenzione dalla sola dimensione testuale all’intera dimensione mediale” (Zecca 2013: 19), ed indagando così i “diversi linguaggi mediali e multimediali” (Sibilla 2018: 98) che configurano la forma-canzone nel suo statuto.
2 La scrittura filmica di Claudio Baglioni
Franco Fabbri (2008: 131) lo definisce “l’alternativa di centro-sinistra alla coppia Mogol-Battisti”; Edmodo Berselli (2003: 139, 147) ne loda invece la “precisione linguistica, il distinguibile amore per le parole e la sensibilità per la metrica”, definendolo uno “sperimentale […] maniaco dell’esercizio linguistico”. La parabola del cantautore romano Claudio Baglioni (1951) all’interno degli studi di popular music è piuttosto particolare: per diversi anni infatti egli è stato considerato un “cantautore minore” (Borgna et al. 1994: 117) sulla scorta di una contrapposizione, in voga in Italia a partire almeno dagli anni Cinquanta, tra una musica autentica e vera, dunque bella (ben rappresentata, negli anni Sessanta, dalla canzone d’autore, fenomeno culturale a lungo considerato come autenticamente popolare), e una musica falsa, perché imposta dal capitalismo, dunque brutta e degna di disprezzo (Tomatis 2019: 21-23). La riabilitazione di Baglioni da parte della critica specialistica è avvenuta sulla scorta di due approcci inediti: uno più culturalista, che ha cercato di superare questa contrapposizione “ridisegnando il concetto di popular verso una prospettiva storica” (ivi), dunque considerando il grande riscontro di pubblico avuto dal cantautore a partire dai suoi primissimi grandi successi fino alla recente tournée Al Centro (2018-2019); uno più formalista, che ha indagato le caratteristiche e le specificità dei testi baglioniani, soprattutto i testi musicali e verbali delle canzoni (Ciabattoni 2007 e 2016; Talanca 2017); troppo poco sono invece stati indagati tutti quegli altri aspetti (elementi paratestuali, immagini, performance live) che concorrono invece a caratterizzare le strategie di visibilità e l’identità di un artista pop (Spaziante 2016), sui quali si spera che arriveranno contributi in futuro (non solo su Baglioni, ma su tutto il mondo dei cantautori).
Diversi studiosi afferenti a svariati disciplinari (linguisti, semiologi, sociologi e musicologi) si sono occupati della produzione del cantautore romano, azzardando per il suo stile definizioni che attingono a più mani al campo semantico cinematografico; nessuno di loro, tuttavia, si è mai addentrato dettagliatamente nel cercare di capire quanto il cinema abbia influenzato realmente la sua produzione, a partire proprio dalla scrittura, definita da molti cinematografica e filmica (Castaldo 1985, Borgna et. al 1994: 129-139, Campisi 2005, Pedrinelli 2007: 94-95, Ciabattoni 2016: 134, Jachia 2018: 89). Tale scrittura, a detta di chi scrive, ha accompagnato la produzione di Baglioni sin dai suoi esordi,5 all’inizio degli anni Settanta, in un decennio per altro fondamentale nella storia della canzone in Italia (Tomatis 2019: 20), nel quale la forma-canzone stava cercando modalità espressive proprie per staccarsi da un retroterra sostanzialmente melodrammatico e folkloristico. Non è forse un caso, dunque, che un concept album dal taglio già intrinsecamente cinematografico (e dunque sostanzialmente intermediale6) come quello che consacrò al grande successo il cantautore romano, Questo piccolo grande amore (1972), dopo oltre trentacinque anni divenne un vero e proprio film (Questo piccolo grande amore, 2009, Riccardo Donna), un libro e un ibrido prodotto audiovisivo (un supporto visivo utilizzato durante un tour nei teatri, poi diventato un prodotto audiovisivo pubblicato in Dvd). Il disco originale, dunque, dopo parecchi anni dalla sua uscita, venne così sottoposto dal suo stesso autore a differenti processi di traduzione intersemiotica dovuti a ragioni da un lato commerciali, con la riproposta di un’icona di successo che sfruttasse appieno la “nostalgia mediale” (Morreale 2009) italiana diffusasi a partire dagli anni Novanta, ma dall’altro anche a istanze artistiche, poiché dalle nuove rimediazioni sono scaturite nuove configurazioni di senso che, grazie alla messa in pratica di meccanismi di grande interesse sul piano testuale e intertestuale, hanno caricato di inediti significati i nuovi prodotti, distanziandoli sostanzialmente dal marco-testo di partenza, e rendendoli qualcosa di nuovo e di diverso (per usare una terminologia cinematografica, un remake/reboot).
La natura di concept narrativo di Questo piccolo grande amore (che, secondo Franco Fabbri [2008: 131-132] deve molto ai Beatles, come tutta la produzione amorosa del primo Baglioni) fa sì che al suo interno vi sia raccontata una storia dall’inizio alla fine, così come avviene nei racconti, sia cinematografici che letterari; a rendere il disco ancora più intermedialmente filmico però è soprattutto la scrittura per inquadrature attuata nei testi delle canzoni, come si può osservare, a titolo meramente esemplificativo, nel secondo brano, Una faccia pulita. La sequenza della canzone riporta il primo incontro tra l’io protagonista, Andrea, e la sua futura fidanzata, Giulia;7 dopo una rapida inquadratura sulla scenografia di sfondo (sottolineata dall’avverbio finalmente: “Finalmente una strada fuori mano e un bar”8), lo sguardo-macchina da presa di Baglioni inquadra il protagonista da vicino (è “tutto sudato”) mentre entra nel bar, poi lo riprende dalla testa ai piedi mentre ascolta una battuta di dialogo fuori campo della ragazza; Andrea viene poi inquadrato mentre si volta e vede apparire Giulia, di cui il cantautore-regista regala alcuni brevi zoom in soggettiva (“la maglietta scollata, una faccia pulita”), per poi inquadrarla frontalmente mentre risponde con un'altra battuta di dialogo. Tale strofa sembra proprio esser stata concepita come legata all’immagine filmica audiovisiva: nei versi “nel sentir questa voce mi voltai / manco a farlo apposta ho visto lei” si vedono e si sentono infatti gli effetti di una canzone con funzione di istanza narrativa primaria (in cui “la canzone [o la musica] assume […] il mandato di protagonista di sviluppo di una determinata sequenza”, Buzzi 2013: 53), poiché il movimento del corpo dell’io-narrante si ferma irrealmente mentre, sorpreso dalla voce di Giulia, si sta voltando per scrutarne il volto. Così, per altro, avverrà nella trasposizione cinematografica di questa strofa nel film del 2009: durante la sequenza, mentre in sottofondo la canzone, attraverso il testo (che diventa così una voice over interiore del protagonista maschile), esprime ad alta voce i pensieri di Andrea (interpretati dal cantato di Baglioni – tutto il disco è raccontato in prima persona; il film, invece, non è tutto in soggettiva, ma è focalizzato sulla figura di Andrea), il suo corpo si ferma irrealmente, e si volta piano piano fino a che non scorge la ragazza che poco prima gli ha rivolto parola chiedendogli una sigaretta. La natura di questa scrittura, dunque, non è solo cinematografica, ma è addirittura musicale-cinematografica, sulla scorta di un uso della musica nell’audiovisivo che era già stato abbondantemente sperimentato dal cinema italiano nel decennio precedente (Buzzi 2013), e dunque ormai molto noto agli autori di canzoni, che ne hanno, forse inconsciamente, introiettato le modalità espressive; in questo caso, infatti, Baglioni compone, pensa e struttura la sua storia d’amore come se fosse agita all’interno di una messa in scena.
Tale forma di scrittura canzonettistica è affinata ne La vita è adesso (1985), concept album che si presenta come “una rilettura ed una risposta alla visione pasoliniana del mondo delle borgate romane” (Ciabattoni 2007: 233), fortemente influenzato dal cinema neorealista per tematiche, soluzioni e stile; nell’album infatti la forma-canzone, esattamente come il cinema neorealista, “si dà come strumento di registrazione e riproduzione di una realtà autentica e non mediata, di carattere fortemente antispettacolare” (Villa et al. 2015: 110). Nel disco si possono annoverare diversi elementi neorealisti: la scelta di non ricorrere a personaggi e protagonisti definiti, ma di raccontare storie anonime di uomini qualunque; il setting delle borgate romane, caro ai neorealisti De Sica, Rossellini e Pasolini; la gestione del tempo neorealista: l’album, privato di elementi narrativi classici, non racconta momenti selezionati di una storia, uniti tra loro tramite montaggio, ma riprende, in ordine cronologico, quadri e bozzetti di vita urbana nel corso di un’intera giornata, dal sorgere del sole del primo brano (Un nuovo giorno, un giorno nuovo) al notturno dell’ultimo (Notte di note, note di notte); l’assenza di elementi esplicitamente romani9 come i toponimi (presenti invece nell’album del ‘72), poiché la capitale deve poter rappresentare tutti gli ambienti di sottoproletariato urbano dell’Italia degli anni Ottanta. Il disco in realtà è modulato su una visione reale, confermandone così la sua natura profondamente cinematografica: Baglioni dal Caffè Lo Zodiaco a Monte Mario (dove scrisse realmente quasi tutti i testi dell’album) guarda Roma dall’alto, per tutto l’arco di una giornata, lanciandosi di volta in volta, come un cineocchio quasi vertoviano, lungo le sue strade (Amori in corso), dentro le case (E adesso la pubblicità) e i cortili (Uomini persi, L’amico e domani), sulle vie e i marciapiedi (Andiamo a casa, Tutto il calcio minuto per minuto) e perfino su un treno in corsa (Un treno per dove). Il videoclip della titletrack – il primo della carriera di Baglioni –, girato da Gabriele Salvatores, sembra confermare questa ipotesi: la capitale è inquadrata dall’alto in lunghe panoramiche in piano-sequenza, in cui il regista va a pescare il cantautore che passeggia per le strade romane più anonime, in mezzo alla gente comune. La scrittura si fa ancora più cinematografica in brani come E adesso la pubblicità, ottimo esempio, secondo Spaziante (et. al 2009: 14; Campisi 2009), di rapporto cooperativo tra testo e musica (poiché il “tema espresso dal testo verbale viene tradotto in musica mediante tecniche di ripetizione armoniche, melodiche o ritmiche”), costruito tramite giustapposizioni di frasi e di blocchi nominali in fraseggi musicali che ricreano lunghi piani-sequenza, dissolvenze ed ellissi, enfatizzate e realizzate da uno sparuto ricorso agli articoli e alle congiunzioni (Borgna et al. 1994: 129-130), o in brani come Amori in corso, costruito tutto all’esterno, come attraverso l’occhio di un cineoperatore, nel quale sono ’filmate’ diverse situazioni d’amore10 (gli innamorati che escono da una chiesa, sulle lambrette, al mare, mentre mangiano un gelato, etc…), tutte evocate in terza persona da frasi giustapposte tra loro e prive di legami sintattici.
L’ultima e più significativa tappa del percorso di scrittura intermediale-filmica di Baglioni è Io sono qui (1995), disco pensato in toto come un film, attuando una vera e propria traduzione intersemiotica non solo di contenuti, ma formale (una messa in forma del film nella forma dell’album-concept). Questa traduzione è avvenuta su più piani. A livello macro-testuale, la tracklist richiama l’incedere della pellicola sullo schermo, con tanto di titoli d’Inizio, Intervallo e Titoli di coda (un brano in cui la conclusione del film si fa allegoria della fine della vita); il macro-testo poi è ritmato dai Tempi, mini-brani solo pianoforte e voce il cui testo (ispirato al Pasolini di Bestemmia [Ciabattoni 2016: 134], già intrinsecamente cinematografico) è una vera e propria sceneggiatura cantata (anzi, sussurrata), con tanto di modalità di chiusura o di raccordo (“stacco”, Primo tempo; “dissolvenza”, Secondo tempo), movimenti di macchina (“piano sequenza”, Terzo tempo; “dolly indietro”, Quarto tempo), effetti (“ralenti”, Terzo tempo; “effetto flou”, Quarto tempo), luoghi in cui posizionare la macchina da presa (“cameracar”, Secondo tempo; “dal basso”, Terzo tempo) e campi di ripresa (“fuori campo”, Primo tempo; “totale”, Secondo tempo). In essi inoltre Baglioni utilizza il sonoro tout court, secondo l’uso che ne fa proprio il cinema, inserendo alcuni rumori (non a caso, nei testi mancano le indicazioni di regia sulla sorgente delle voci e dei rumori, affidate alla componente sonora-performativa della forma-canzone, e non a quella verbale); nel Terzo tempo si ascoltano per esempio i passi di due piedi (in sottofondo ai versi “e i suoi piedi che ora / vanno proprio a tempo / mentre scendono le scale”), mentre nel Secondo tempo si può ascoltare il passaggio di un auto (durante i versi “lui strimpella su un volante / di un’auto scoperta”) e il rumore dell’acqua di una doccia che scende (“nella tenda della doccia / si muove una figura”), e molti altri ancora. L’arrangiamento del brano, che rientra a pieno titolo negli aspetti performativi della forma-canzone,11 ne riconferma il significato: Baglioni si mette da solo davanti al pianoforte a raccontare, con voce appena accennata (come in una confidenza fatta al proprio pubblico), il momento attuale che sta vivendo come artista e come uomo, dando così una connotazione fortemente realistica al filo conduttore del macro-testo (il primo brano vero, Io sono qui, si apre infatti così: “Dove sono stato / in tutti questi anni / io me n’ero andato / a lavarmi i panni / dagli inganni del successo / a riscoprirmi uomo / io sempre lo stesso / più grigio ma non domo”). Come in una vera sceneggiatura, il contenuto delle canzoni ‘tradizionali’ della tracklist viene anticipato in modo sistematico, e in ordine categoricamente cronologico, nei Tempi da uno o più versi: in Primo tempo (“negli occhi ha dei pensieri / chiusi in cerca di colori / (stacco) ora corre una spiaggia”) si anticipa la sinossi del brano che segue in scaletta, Le vie dei colori, mentre il successivo Reginella è anticipato dai versi “(fuori campo) una voce in napoletano / eco di un vecchio canto / che cammina in fondo al mare”, e via via così, per tutte le altre canzoni. Tutto Io sono qui è in realtà costruito in chiave completamente cinematografica anche a livello tematico: il cinema per Baglioni è metafora e allegoria della realtà, che inganna confondendo il vero con il falso e il reale con l’irreale; la tematica dell’album dunque è strettamente legata alla scelta di ipermediazione, nella quale il cinema “si mostra al lavoro, con le sue logiche di enunciazione testuale” (Dusi 2015: 16) in stretta sinergia tra significante e significato e tra modalità espressive e contenuti.
3 Media, New Media e arti performative
I tentativi di traduzione intersemiotica di Baglioni non si fermano al cinema. Anzi, i primi tentativi di messa in pratica di esplicite “procedure mimetiche (nella maggior parte dei casi narrative) di media diversi da quello di appartenenza” (Vittorini 2019: 13), che non siano il cinema, risalgono agli anni Ottanta. Fotografie (1981) è un brano che racconta l’evolversi di una relazione amorosa nell’arco di un anno; il racconto tuttavia non è una vera e propria narrazione, ma la storia d’amore viene evocata attraverso la sola descrizione di fotografie, che ironicamente restano fisse nel tempo proprio mentre la relazione si evolve e si consuma con l’avanzare del tempo; la struttura del brano cerca così di ricreare a livello formale la struttura materiale di un album di fotografie, che si può sfogliare anche quando la storia è ormai giunta al termine. In Tutto il calcio minuto per minuto (La vita è adesso, 1985) l’autore riproduce invece la struttura del celebre programma radiofonico italiano, saltando continuamente da una storia d’amore all’altra (ne racconta tre in totale, afferenti a tre fasi diverse della vita – e quindi delle relazioni) come avviene nella nota trasmissione, in cui il cronista di ogni campo, al termine del collegamento, cede la parola ad un collega su un altro campo. Il salto fra le storie d’amore è dato da alcuni elementi linguistici del testo verbale, rafforzati come in contrappunto dalla partitura musicale: la variatio dei sostantivi che designano i protagonisti delle vicende (ragazzina [6 occorrenze] e ragazzino [1] per i più giovani; ragazza [4] e ragazzo [1] per i ragazzi più cresciuti; donna [5] e uomo [3] per gli adulti); l’assenza di connettivi che danno consequenzialità narrativa; la giustapposizione di periodi chiusi, separati dai singoli fraseggi melodici, in ciascuno dei quali sono descritte le ‘azioni’ (con tanto di replay di calcistica memoria) di uno dei due elementi di ciascuna coppia. Il testo inoltre è ricco di impennate e di zoom che focalizzano piccole azioni fisiche, esattamente come fanno i cronisti radiofonici, che tramite la loro narrazione devono sopperire all’assenza di immagini visive (così come avviene anche nella forma-canzone).
Ne L’ultimo omino (non a caso in Io sono qui, 1995) invece l’intermedialità guarda ai nuovi media: le strofe riproducono infatti un videogioco, contrapponendo ancora una volta realtà mediata (quindi finzionale) e realtà autentica, e rappresentando così, in una nuova allegoria mediale, la vita come un combattimento a più livelli (come nei videogiochi anni Novanta12); si tratta di un tentativo ante litteram di gamification, nel quale l’aspetto ludico (in questo caso video-ludico, pur in assenza di immagini) fuoriesce dal campo del gioco per “diffondersi ampiamente entro l’ambito mediale” (Catolfi e Giordano 2015: 12), in questo caso in quello della forma-canzone. All’inizio di ogni strofa la voce di Baglioni, parlando sottovoce, annuncia il livello raggiunto (in inglese, lingua per eccellenza dei videogame), per poi descrivere i singoli level, ognuno dei quali incarna una fase del ‘gioco della vita’ attraverso perifrasi di carattere metaforico: il primo livello rappresenta la primissima infanzia (“Level one / A cavallo di un girello / sempre a caccia di tesori / piccole dita di mela sul castello / con le carte e un vento abbatte quadri e cuori”); il secondo e il terzo l’adolescenza; il quarto l’età adulta; il quinto, infine, il disincanto (tematica centrale in tutti e tre i dischi degli anni Novanta, Talanca 2017: 283-284). La melodia della strofa è ascendente: da un Do# basso (che si abbassa a Si al termine del primo fraseggio) si passa, salendo gradatamente, fino ad un Fa# alto, per poi tornare ciclicamente al Do# inziale, quasi come a ricreare l’azione del videogioco dove, una volta raggiunto il punto più alto della climax, alla fine del livello si ritorna alla situazione di stasi di partenza, per poi passare al livello successivo. Nel finale, suggellando definitivamente il rapporto con l’universo cinematografico e mediale, e andando a pescare nel patrimonio culturale condiviso dell’immaginario intermediale, il cantautore rappa (con alcune varianti di natura ritmica) sulla coda musicale del brano il monologo del replicante Roy Batty di Blade Runner (1982, Ridley Scott), in perfetta sincronia con le tematiche del disco (il rapporto tra realtà vera e realtà virtuale/mediata).
Una nuova spinta intermediale, questa volta non verso un vero e proprio medium, ma nei confronti di un’arte performativa – la danza –, si ha in Bolero (sempre in Io sono qui). Le strofe di questo brano hanno una struttura martellante, al limite dell’ossessivo (stesse rime, stesso numero delle sillabe, medesima posizione delle parole, emistichi a specchio, fraseggi musicali ricorsivi), che si ripete sempre uguale di volta in volta in blocchi di tre versi ciascuno, ricreando tramite la scrittura e le partizioni musicali il bolero, danza spagnola in ritmo ternario strutturata in due parti principali, che si ripetono sempre uguali, in continuazione ed in modo ossessivo. La contrapposizione reale/virtuale (finzionale) come allegoria della vita nel brano è evocata a più riprese anche sul piano sintagmatico (come negli ossimori “ruolo fisso da comparsa” o “realtà virtuale”13), ed è rafforzata dall’ossatura intermediale del brano, che sancisce la condanna dell’uomo a vivere per sempre la contraddizione (quasi pirandelliana) dell’essere al contempo sia qualcuno che nessuno (appunto, semplicemente un ‘omino’, dalla limitata autonomia esistenziale).
4 Nuove semantizzazioni
Nuove semantizzazioni dei brani sono infine offerte da Baglioni grazie al ricorso materico ad altri media, e a nuovi processi di traduzione intermediale e intersemiotica, che si passeranno ora rapidamente in rassegna.
L’album Viaggiatore sulla coda del tempo (1999) è inciso su cd-rom, dunque si presenta come un ipertesto: grazie a questa forma, è possibile accedere ad altri contenuti (oltre alle canzoni) tra cui gli Appunti del viaggiatore, un complesso paratestuale (in particolare un epitesto, autoriale e pubblico) formato da tredici prosimetri (testi sia in prosa che in versi) accessibili soltanto attraverso alcuni piccoli giochetti (in piena gamification), che contengono informazioni necessarie per la comprensione delle tantissime allegorie dei testi dell’album, senza le quali risulterebbero altrimenti incomplete e oscure. Nel disco Baglioni, scegliendo la forma dell’ipertesto, non si limita dunque ad offrire “un’esperienza ludico-interattiva ai suoi fruitori”, come hanno fatto diversi suoi colleghi nello stesso decennio (Sibilla 2018: 294), ma affida alcune informazioni fondamentali per la sua comprensione completa al supporto tecnologico del cd-rom, chiedendo ai suoi fruitori un’esperienza non solo passiva d’ascolto, ma un intervento attivo per poter cogliere tutti i significati allegorici del suo lavoro, anticipando nei tempi la rivoluzione del prosumerismo del Web 2.0. Lo sfondo tecnologico è legato sia agli aspetti musicali che contenutistici del disco: dal punto di vista musicale, nell’album (e nella successiva tournée) sono abusati sequencer, sintetizzatori, effetti vocali e strumenti elettronici; dal punto di vista del contenuto, il disco si propone come spartiacque tra i due millenni, in un momento storico in cui la tecnologia sembra iniziare a fare da padrone (“Sarà una nuova età / o solo un’altra età” si chiede il cantautore in Cuore d’aliante, singolo di lancio dell’album).
Nel quadri-progetto Q.P.G.A. (2009), Baglioni risemantizza l’album originale del 1972, Questo piccolo grande amore, sfruttando appieno il supporto audiovisivo sia nel già citato film che nell’atto finale del progetto, Q.P.G.A. FilmOpera (Duccio Forzano, 2010), dal quale si può dedurre per altro la globale e inedita configurazione di senso di tutta l’operazione. Il prodotto, il cui nome evoca (volutamente o meno) un genere filmico ben preciso (Miceli 2009: 842-846),14 è un continuum audiovisivo di oltre due ore e mezza realizzato grazie all’incrocio di differenti ordini di immagini: home-movies del cantante da bambino, filmati d’epoca (fine anni Sessanta, primissimi anni Settanta) recuperati tramite un appello sul web, immagini girate per l’occasione (di Baglioni-adulto, di Roma – dove è ambientata la vicenda – o di altre location), sequenze del film di Donna o materiale d’archivio tagliato dal montaggio finale, immagini create in digitale; queste differenti tipologie di immagini sono montate fra loro non solo in orizzontale, ma anche in verticale (ossia con immagini sovrapposte l’una sopra l’altra). Grazie ai due montaggi si realizzano nuove configurazioni di senso, che consentono un’adesione tra “l’io empirico e l’io rappresentato” (Spaziante 2016: 4) del cantautore: l’immagine di Baglioni-adulto infatti si sostituisce talvolta ad Andrea, protagonista della vicenda amorosa del film; al contempo, l’uso degli home-movies del giovanissimo cantautore legano la vicenda dell’album e raccontata nel film (appartenente al regime finzionale) con la giovinezza vera del cantante (appartenente al regime di realtà). La storia d’amore raccontata nel FilmOpera abbandona così la “dimensione enunciativa impersonale” (Spaziante 2007: 36) che aveva nell’album originale per assumere un’inedita dimensione personale, poiché si presenta come un filtro-memoria dell’uomo-Baglioni-adulto, che ricorda sia la propria giovinezza (con la leggerezza amorosa che porta con sé), che il proprio primo grande album di successo, cercando, grazie all’operazione (tipicamente cinematografica) del remake e del reboot, di esorcizzarlo (dopo anni di difficoltà anche nel re-interpretarlo15). Si tratta, in poche parole, di un gioco a tutti gli effetti meta-testuale. Da un lato, Baglioni si rivolge al suo fandom di vecchia data, che conosce la storia originale: fruendo il remake, il pubblico storico attiva una serie di link che funzionano proprio grazie al confronto con il prodotto originale; dall’altro, chi si approccia ex-novo a questo lavoro si trova di fronte alla narrazione personale di un adulto quasi sessantenne che riflette sul proprio passato, per cui può fruirlo in questo modo, anche senza conoscere nel dettaglio l’opera originale.
FilmOpera si presenta, mutuando il termine da ‘colonna sonora’, come una colonna visiva dell’album, infatti viene fruito per la prima volta dagli spettatori insieme alle canzoni durante la tournée Concert-Opera (2009-2010), nella quale Baglioni esegue integralmente il remake del disco (e simultaneamente, sullo schermo, viene proiettato il continuum di immagini). Al contrario di quanto avviene di norma con la colonna sonora, il filmato è (mutuando il termine dalla terminologia di Corbella 2020: 8-9) una imagetrack, la cui testualità visiva è un’aggiunta ad un testo già di per sé completo (quello canzonettistico, formato dalle singole canzoni dell’album/macro-testo), che però, come avviene nel cinema con la colonna sonora, grazie alla sua strutturazione permette nuove configurazioni di senso al testo di partenza, da cui risulta essere di conseguenza inter-dipendente. Infatti, quando il FilmOpera viene pubblicato in Dvd, le immagini vengono montate con le canzoni dell’album, trasformando così la colonna visiva in un vero e proprio prodotto audiovisivo completo e indipendente, che sintetizza il significato e il senso di tutta l’operazione, sia sul piano estetico che su quello industriale.
Infine, nel tour celebrativo Al Centro, in occasione dei festeggiamenti per i cinquant’anni di carriera, Baglioni porta a compimento un percorso di ricerca all’interno della dimensione live e spettacolare inaugurato (almeno) negli anni Novanta grazie ad un’inedita collocazione del pubblico e del palcoscenico (appunto, ’al centro), e con la collaborazione di figuranti e performer, permettendo che venisse superata la tradizionale barriera tra artista e pubblico. Nel tour i brani, rigorosamente in ordine cronologico di pubblicazione,16 sono accompagnati da coreografie dirette da Giuliano Peparini (e da lui progettate insieme allo stesso Baglioni) che hanno offerto nuove semantizzazioni dei testi, talvolta di carattere allegorico (come in Poster o Uomini persi), altre volte più aderenti ai contenuti originali (come in Ragazze dell’est o Viva l’Inghilterra); l’attenzione all’aspetto visuale della performance come veicolo di significazione è stato rimarcato dalle riprese televisive di Duccio Forzano (della data del 15 settembre 2018, trasmessa in diretta dall’Arena di Verona, e poi riversata in Dvd), che ne hanno valorizzato l’inedita specificità visiva grazie alla posizione centrale del palco (rispettando così la struttura e la disposizione dell’anfiteatro) e all’alternanza di panoramiche, longtake a 360 gradi e virtuosismi, permettendo così una vera e propria immersione dei telespettatori all’interno delle singole performance.17 Come nell’operazione Q.P.G.A., anche queste nuove semantizzazioni si rivolgono a due pubblici differenti: il fandom, che già conosce a memoria i brani (cogliendo i nuovi significati dati dalle performance), e il pubblico nuovo, che fruisce per la prima volta i brani nell’inedita dimensione performativa. Baglioni, giocando con il proprio passato, è ben consapevole di questa doppia dinamica fruitiva, e se da un lato sente il bisogno di rimettere in gioco sé stesso, la propria immagine, la propria icona, il proprio passato ed i propri brani di successo, dall’altro cerca modalità espressive nuove, per far sì che le sue canzoni possano godere una sorta di nuova giovinezza.
Conclusioni. L’intermedialità come risorsa e come configurazione di stile
Dal lavoro svolto sul caso-studio si può dedurre che l’intersezione tra forma-canzone e altri media possa essere analizzata su tre livelli: da un punto di vista mediale la canzone, non avendo un proprio medium di riferimento, è di per sé già intrinsecamente intermediale e multimediale, indipendentemente dai suoi contenuti e dalla struttura formale dei suoi elementi (un primissimo livello di intermedialità); da un punto di vista testuale interno, poi, il testo complesso della canzone può vivere delle suggestioni di altri media, anzi, può articolarsi ispirandosi alla struttura di prodotti appartenenti ad altre sfere mediali (si accede così ad un secondo livello di intermedialità, che può essere definito “strutturale”, sulla scorta di quanto elaborato dai teorici dell’audiovisivo per quanto riguarda la relazione tra cinema e letteratura tradizionale18). Infine, da un punto di vista contestuale, la forma-canzone può essere rielaborata in altre forme testuali (performance, esecuzioni live, traduzioni intersemiotiche, remake, reboot, etc…), consentendo un’intermedialità oggettuale che cambia la sostanza del prodotto in questione (non è più una semplice canzone, ma diventa qualcosa d’altro): l’intermedialità in questo caso si presenta come una risorsa della forma-canzone per ampliare le proprie possibilità espressive.
Se i tratti strutturali di altri media si presentano in modo strutturato e ricorsivo all’interno di un corpus di opere di un singolo autore di canzoni, diventano inoltre elementi per configurarne il suo stile19 canzonettistico, assumendo così carattere distintivo. La presenza in diacronia nell’opera di Baglioni di traduzioni intersemiotiche (un album come un film), processi di rimediazione (l’ipertesto; il passaggio da album a film, a romanzo e a performance teatrale) e strategie esplicitamente intermediali (scrittura intermediale: filmica, videoludica, radiofonica) dimostra quanto appena osservato: la forma-canzone, non bastando a sé stessa, si è alimentata nel corso della sua storia grazie ai supporti dai quali viene fruita, offrendo così ai propri prodotti la possibilità di configurazioni di senso plurime, inedite e mutevoli a seconda dei contesti in cui essi appaiono (cd-room, concerti live, film, album, etc.20); su un piano testuale, la forma-canzone invece può guardare agli altri media, introiettando di volta in volta pratiche narratologiche cinematografiche, audiovisive, videoludiche, radiofoniche e performative, adattandole in seguito alla propria specificità già naturalmente intermediale.
Baglioni non è certamente il primo a realizzare qualcosa del genere, anzi, si inserisce in un contesto molto articolato – quello dell’incontro tra immagini, suoni e parole – che, a partire dalla fine dell’Ottocento, quindi con lo sviluppo stesso del cinema (e, in un secondo momento, del cinema sonoro), sembra svilupparsi in chiave già prettamente intermediale: in Italia, in particolare, dopo una primissima finestra di sperimentazioni contestualizzabile all’interno degli anni Trenta, nei quali si assiste ad una vera e propria convergenza mediale ante litteram (Valentini 2007: 159-165),21 la cooperazione, il dialogo e l’incrocio tra i media (sia a livello industriale, che culturale e testuale) si realizza ancora di più negli anni del boom economico, in particolare tra gli anni Ottanta e Novanta (con l’invenzione di tecnologie sempre più multimediali), sia in ambito letterario che in quello musicale, si pensi per esempio ai romanzi di Carlo Lucarelli o Enrico Brizzi, “racconti dagli effetti multimediali” realizzati trasportando “sulla pagina il modello narrativo cinematografico” (Antonelli 2016: 186), o a tutti quegli artisti che hanno deciso di dare visibilità iconografica e teatrale alle proprie opere, come Vasco Rossi (Spaziante 2007: 81).
Il ruolo del cinema come medium di riferimento nei processi di traduzione intersemiotica (in questo caso per la lingua letteraria) è stato messo in evidenza da Giacomo Manzoli (2003: 10), in un discorso che può essere equamente traslato alla forma-canzone.
Dal momento in cui il cinema ha assunto un ruolo predominante nel sistema delle arti e dei mezzi di comunicazione, si sono andate via via sviluppando generazioni di scrittori che hanno desunto dal cinema non solo una serie di modelli iconografici, bensì anche una vera e propria sensibilità narrativa. […] Ecco che il legame è diventato, a tutti gli effetti, legame di scambio continuato e dunque di circolazione di idee e modi di rappresentazione. Così […] la letteratura ruba dal cinema […], riadattando alle proprie esigenze alcuni fenomeni specifici del nuovo mezzo, che il cinema è poi capace di riassorbire e perfezionare ulteriormente.
Non a caso, l’intermedialità di Baglioni procede di pari passo con l’evolversi delle tecnologie multimediali: fotografie, radio, cinema, cd-rom e videogiochi in ordine cronologico. Il presente contributo dunque, oltre a esplorare le possibilità intermediali della forma-canzone, ha cercato di dimostrare come in particolare l’opera di Claudio Baglioni abbia fatto dell’intermedialità e della collaborazione con gli altri media (in particolare il cinema22) una propria cifra stilistica; tale originalità ha permesso di riflettere anche intorno allo statuto dell’autore romano, per anni “tenuto fuori dai confini della canzone d’autore e in parte dello stesso «cantautorato» […], a causa – si direbbe – di una sua predilezione per temi e linguaggi esplicitamente ancorati alla tradizione romantica italiana”, nonostante a lui si debba “uno dei primi, e più riusciti, concept album della canzone italiana” (Santoro 2010: 188).23 Baglioni infatti è stato tra i primi in Italia ad inaugurare una sorta di “pop d’autore” (Talanca 2010: 59-64), un genere misto e dinamico (Tomatis 2019: 26-27) che unisce autorialità, processo fortemente identitario24 che investe pratiche sia testuali che extratestuali, e pop, “macrogenere musicale e intrinsecamente intermediale che comprende una serie di sottogeneri specifici della canzone popolare […] contraddistinti dalla diffusione intermediale su supporti fonografici e mezzi di comunicazione” (Spaziante 2007: 29).
L’opera di Baglioni per altro si inserisce in un periodo fondamentale nella storia della forma-canzone in Italia: negli anni Settanta e Ottanta infatti “la canzone italiana completa il suo percorso da musica votata al puro intrattenimento e alla danza a musica con ambizioni artistiche” (Tomatis 2019: 20); per raggiungere tale scopo la forma-canzone, muovendosi in un panorama intermediale in costante evoluzione, ha pian piano introiettato le modalità narrative di altri media, così come dimostrato nell’analisi del caso-studio, in cui l’intermedialità è passata dal livello mediale a quello strutturale e oggettuale. Tali modalità narrative sono state introiettate da molti cantautori a partire proprio dagli anni Settanta: si pensi, a titolo esemplificativo, alla struttura sintattica e musicale di brani come La canzone del sole (Battisti-Mogol, 1971), tutta costruita per inquadrature anche sonore (“e le tue corse, l’eco dei tuoi no”), Incontro (Francesco Guccini, 1972), nel quale si alternano soggettive, campi lunghi e primi piani, oppure alle tante opere piene di richiami tematico-contenutistici al cinema,25 come Hollywood Hollywood (1982) di Roberto Vecchioni, o Kevin Spacey (2011) di Caparezza, originale contaminazione postmoderna.
Insomma, il cinema (poi, pian piano, anche gli altri media) a partire dagli anni Settanta ha rappresentato per la forma-canzone in Italia un’inedita risorsa per ampliare le proprie possibilità semantiche, e un prezioso aiuto nel suo percorso di legittimazione culturale come categoria artistica ed estetica (poiché il cinema, nel frattempo, era stato da tempo riconosciuto come arte26); non è un caso, forse, che cinema e canzone a partire dagli anni del boom economico (Buzzi 2013, Locatelli e Mosconi 2011) hanno contribuito nel nostro paese alla nascita e allo sviluppo di un nuovo immaginario intermediale, ancora vivo e vegeto oggi, anzi, sempre più alimentato dai nuovi oggetti che affollano ex-novo l’ecosistema mediale.
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Una ricca e abbastanza aggiornata bibliografia degli interventi linguistici sull’argomento si trova in Ciabattoni (2016: 11-26).↩︎
Si fa riferimento alla teorizzazione del musicologo Stefano La Via (2011: 11): la canzone è “una composizione poetico-musicale assai varia e mutevole […] caratterizzata dall’incontro e dalla mutua interazione fra due elementi testuali che a loro volta rimandano a due diversi sistemi linguistico-espressivi: […] un «testo verbale» e […] «un testo musicale»”; la testualità canzonettistica rientra nel più ampio campo della testualità sonora (Spaziante 2007: 131-162).↩︎
Nato dal Capitolo III della mia tesi di Laurea Magistrale in Filologia Moderna, Scienze della Letteratura, del Teatro e del Cinema (Nel segno del film, nel segno della canzone: la situazione italiana. I casi di Claudio Baglioni e di Nanni Moretti, relatore Federica Villa, correlatore Paolo Jachia, Dipartimento di Studi Umanistici, Università degli Studi di Pavia, A.A. 2018-2019).↩︎
Ogni artista infatti ha una propria “visione del mondo, che lo identifica (gli dà un’identità) e che permette al fruitore di identificarsi (aderire a un’identità)” (Sibilla 2018: 114).↩︎
Un esempio embrionale di questa scrittura è presente in Signora Lia (1970), brano in cui Baglioni descrive da ‘esterno’, come appunto un osservatore cinematografico (attraverso l’occhio di una macchina da presa), le faccende domestiche di Lia, in preda ad alcuni litigi con il marito.↩︎
La natura intermediale dell’album appare già evidente in una delle sue primissime rappresentazioni nella trasmissione televisiva Tutto è pop (Canale Nazionale, 9 settembre 1972), dove il giovane Baglioni e l’allora moglie Paola Massari interpretano come in un musical i brani del disco cantandone alcuni e recitandone altri, in un botta e risposta dialogato e agito di natura teatrale.↩︎
Questi nomi, assenti nell’album del ’72, compaiono soltanto nei prodotti del quadriprogetto.↩︎
In mancanza di un criterio scientificamente valido per la suddivisione dei versi in canzone, le versificazioni presenti in questo contributo sono state realizzate dopo un ascolto attento delle edizioni originali dei brani, cercando di riprodurre l’andamento musicale; in canzone infatti non si ha né un testo verbale né dei versi, se non, contestualmente, in relazione alla musica e alla performance dell’interprete.↩︎
Sono tuttavia presenti alcuni sintagmi in romanesco, alcuni mutuati da Pasolini (Ciabattoni 2007: 233 e seguenti).↩︎
I protagonisti, anonimi, vengono evocati solo dalla metonimia (anonima) in anafora amori, che come un “sostantivo emblema” (Mengaldo 1991: 138) regge la sintassi di tutte le strofe.↩︎
La centralità della performance nella forma canzone è ribadita da diversi studiosi afferenti a svariati campi: Paolo Giovannetti (2008:185-186) sostiene che “la canzone deve risuonare in una voce e in un corpo”; Lucio Spaziante (2011), riferendosi nello specifico alla canzone pop, afferma che la “performance pop è legata strettamente all’oggetto-pop e alla cultura pop”; Ruggero Eugeni (2010: 247) arriva invece a definire la performance come un elemento catalizzante che, attraverso la voce, mette in atto una “produzione discorsiva, oggetto dunque di un’esperienza viva e progressiva di ascolto”; Fabrizio Deriu (2008: 6), osservando la questione dal punto di vista dei performing studies, indaga la natura orale (dunque performativa) della forma-canzone (dall’antica Grecia ai giorni nostri), chiedendosi “in che modo e in che misura la canzone (qualunque sia la modalità con cui è composta, pubblicata e fatta circolare nello spazio sociale) conserva, rigenera o riformula il canale di comunicazione”orale" all’interno di una società da tempo fondata sulla comunicazione e il registro scritto", analizzando alcuni casi-studio a detta sua particolarmente significativi in questi termini.↩︎
Diversi elementi lessicali del testo rimandano a quella sfera, dall’ “omino” con cui gli utenti agiscono il gioco, alle “vite” (“dove si gioca la partita / che noi combatteremo fino all’ultima vita / all’ultimo omino”) che esso ha a disposizione nei vari livelli.↩︎
Negli anni Novanta tale concetto era ancora un ossimoro, a differenza degli anni Duemila.↩︎
Il film-opera godette di grande fortuna nell’Italia del secondo dopo guerra, e si confà della trasposizione sul grande schermo di opere liriche, legata ad una messa in scena di stampo sostanzialmente teatrale; Miceli (2009: 849) tuttavia lo definisce “una vera propria utopia filmico-musicale nata con il cinema stesso”.↩︎
Si vedano a tal proposito i tanti stravolgimenti live, realizzati tra gli anni Ottanta e i Duemila, della celeberrima titletrack.↩︎
In una logica quindi non prettamente da concerto (in cui di norma alcuni brani vengono posti alla fine creando una climax fortemente dionisiaca per il pubblico), ma narrativa (dunque, anch’essa già cinematografica).↩︎
Durante le riprese di intere canzoni, i musicisti non vengono neanche mai inquadrati: l’interesse registico è rivolto alla dimensione visiva-spettacolare dello show, non a quella musicale/concertistica.↩︎
Tra i tanti, si può far riferimento a Manzoli (2003: 9-10), il quale ha analizzato le modalità con cui la letteratura assume la “narrazione per inquadrature propria del cinema”, teorizzando un approccio strutturalista che “si preoccupa […] di analizzare in maniera comparata il funzionamento del dispositivo letterario e di quello filmico, osservando le modalità e le regole interne”.↩︎
Per il concetto di stile nei prodotti culturali si veda l’efficace sintesi in Colombo e Eugeni (2001: 33-42).↩︎
Sui significati generati dall’incontro tra forma-canzone e prodotti audiovisivi-filmici, si vedano almeno Fabbri 1990, Buzzi 2013, Bisoni 2020; per quanto riguarda le contaminazioni più specificatamente musicali, si vedano almeno Spaziante e Pozzato 2009, Salvatore 2018, Sibilla 2018.↩︎
In particolare, le prime forme ibride tra cinema e canzone sono dovute alla profonda interazione, che si sviluppa nell’Italia degli anni Trenta, tra cinema e radiofonia (per la quale si veda Valentini 2007: 203-297).↩︎
Fino ad arrivare a prestare per la prima volta un proprio brano (Gli anni più belli, dall’album In questa storia, che è la mia, 2020, un altro concept costruito con quadri narrativi, come Io sono qui) per un film, l’omonimo Gli anni più belli (2020, Gabriele Muccino); il legame tra film e canzone è sia industriale che contenutistico: entrambi i prodotti hanno potuto sfruttare infatti la pubblicità del prodotto opposto; inoltre, le parole del testo della canzone sono sì fruibili senza conoscere la vicenda del film, ma acquistano un nuovo significato dopo la visione della pellicola (come il verso “se le cose che ci fanno stare bene / sono qui”, nel quale si ritrova il sintagma “le cose che ci fanno stare bene”, ripetuto come un mantra nella pellicola da Pierfrancesco Favino, protagonista del film).↩︎
A proposito del concept album, Fabbri (2009: 12) afferma che “esiste un filo rosso che, partendo da Frank Sinatra, teine insieme Sgl Pepper’s dei Beatles, Tommy degli Who, the Dark Side of the Moon […] dei Pink Floyd, le storie d’amore di Claudio Baglioni e le favole di Bennato, arrivando fino ai Dream Theater”.↩︎
In canzone per autore si intende “una voce poetico-musicale con la quale l’artista rappresenta e comunica agli altri, nell’arco di un intero canzoniere, il proprio modo di percepire e interpretare la realtà” (La Via 2011: 17); per il ruolo dell’autore nei prodotti culturali si veda Colombo e Eugeni (2001: 33-42).↩︎
In Io sono qui di Baglioni vengono sollecitati, parimenti, entrambi i livelli: tematico-contenutistico e strutturale.↩︎
È necessario ricordare che cinema e canzone in Italia si muovono su di un terreno comune, quello di una “storeografia italiana che compie le sue scelte […] sulla base della contrapposizione fra intrattenimento fine a sé stesso e il valore contenutistico e stilistico dell’impegno o dell’autorialità” (Manzoli 2015: 257): tale prospettiva ha influenzato prima il cinema, e poi, successivamente, anche la storeografia della canzone.↩︎