Cinergie – Il cinema e le altre arti. N.19 (2021), 191–200
ISSN 2280-9481

Le leggi a tutela dei mercati cinematografici nazionali contemporanei e il ruolo della televisione nello sviluppo delle produzioni cinematografiche in Italia e Brasile

Rodrigo Inacio FreitasUniversidade Tecnológica Federal do Paraná (Brazil)

Rodrigo Inacio Freitas (1984), MA in Language Studies (Universidade Tecnológica Federal do Paraná) with International Mobility (ERASMUS+ ICM) at La Sapienza - Università di Roma (2019), studied History, Film and Audiovisual, with research into Media, Hybridism, Intermediality, Production Studies and Eastern European Film History. He teaches Portuguese as a foreign language and also acts as a filmmaker and producer and has been awarded for some of his shortfilms. He published a book about the hybrid film/video Godard filmography in the 70’s and his last thesis was about Mikhalkov’s Anna under Glasnost and Perestroika.

Ricevuto: 2020-07-23 – Versione revisionata: 2021-03-04 – Accettato: 2021-05-17 – Pubblicato: 2021-08-04

The Legal Protection of Contemporary National Film Markets and the Role of Television in the Development of Film Productions in Italy and Brazil

Abstract

This article provides a general overview of two cinematographic markets, Italian and Brazilian, and discusses how in both cases a a legal protection system has been established for their regional audiovisual network. The local broadcasters are obliged to finance local productions or even buy local contents and insert them properly in their transmissions. A protective system has defended regional media, by means of law local producers, and thus increased the number of films available for audience, expanding their media structure while maintaining a quality in their content. This would not be possible without the support of television networks and streaming services. Between a combative stance and a profile based on lamentation there are many possibilities to be chosen by artists and producers that can be a prolific path for both whether for experimental and avantgarde filmmakers or for those truly focused on commercial pieces. The development of the laws regarding cultural production especially cinema and TV can put them in a complementary self-fostering field.

Keyword: Italian Audiovisual Industry; Brazilian Audiovisual Industry; Cultural Policy; Broadcasting; Public Funding for TV and Film.

1 Introduzione

Il seguente articolo offrirà una lettura generale (e tuttavia circostanziata) di due realtà cinematografiche – l’italiana e la brasiliana – che, pur divergendo in numerosi aspetti (storia, capacità innovativa, canoni, dialogo con la tradizione artistica, ecc.) si trovano ad affrontare, soprattutto nella contemporaneità, problemi molto simili per quanto riguarda la “debolezza” dei loro mercati nazionali. Il termine “debolezza” qui utilizzato non è da riferirsi alle cinematografie dei due Paesi in sé, ma al mercato e agli apparati legali a loro collegati, specie se visti in opposizione alla “forza” strutturale, logistica, culturale e finanziaria con cui le opere americane penetrano nei loro mercati, in particolare in quelli regionali. Nella nostra analisi si farà anche specifico riferimento al modo in cui la televisione “nazionale” si è posizionata rispetto a questa offerta di prodotti che, non solo rappresenta culture e opere diverse, ma costituisce anche un’interferenza monetaria e operazionale nell’industria audiovisiva e nei modelli di irreggimentazione di persone e organizzazioni produttive nei due Paesi.

Ci sembra opportuno chiarire che questo articolo non si propone di offrire uno studio esaustivo delle due realtà prese in esame – l’italiana e la brasiliana – poiché una simile analisi meriterebbe uno spazio ben più ampio di quello a disposizione, data l’enorme profondità di possibilità epistemologiche aperte da questo dibattito, che vanno dalla storia economica del cinema agli studi della giurisprudenza applicata alla politica culturale. Pertanto, ciò che proponiamo qui è, più concretamente, una “lettura-excursus” delle leggi brasiliane e italiane che, dalla seconda metà del XX secolo sino ai giorni nostri, hanno regolato tanto il mercato locale della produzione filmica quanto la condotta delle imprese televisive in relazione ai mercati di cui garantiscono la sopravvivenza (quali film vengono preferiti, in quali palinsesti sono inseriti i film nazionali, quanto e come si investe nella produzione…).

Nel presente testo, insomma, ci proponiamo di tracciare un confronto fra questi due mercati, mettendo in risalto la somiglianza dei problemi che li caratterizzano, con la speranza di generare future riflessioni tra quanti si interessino di storia del cinema da una prospettiva economica, delineando così i contorni di un paesaggio teorico costruito sui dilemmi affrontati da entrambi i poli cine-industriali. Ci sembra inoltre opportuno sottolineare che, trattandosi di un panorama bi-nazionale e tracciando un confronto di diverse leggi d’incentivo fiscale, di finanziamento della produzione audiovisiva e di regolamentazione del settore della distribuzione (sale commerciali e TV), raddoppierà anche l’ampiezza delle questioni sollevate, siano esse affrontate o al contrario trascurate nell’ambito legale. Questa nostra analisi cercherà pertanto di tracciare un breve quadro comparativo, costruito sull’alternanza di diverse leggi e dei temi in esse contenuti, senza pretendere di fornire una lettura minuziosa dei loro punti specifici; ciò che ci si propone è di cogliere gli elementi principali che possano aiutarci a comprendere in che modo il sistema legalmente istituito di produzione e distribuzione cinematografica dipenda dalla televisione e come questa, sotto la forza della legge (oppure della sua assenza), interferisca nella quantità e qualità produttiva e nella formazione del pubblico, adatto o no a “consumare” la filmografia regionale a scapito di quella hollywoodiana.

2 Finanziamento, mercato cinematografico e televisione: regolamentazione protettiva o libero mercato?

Attualmente, in diversi Paesi, sono in funzione meccanismi legali di aiuto alla produzione cinematografica nazionale; tra questi Paesi, anche l’Italia e il Brasile. Storicamente, il mercato italiano ha fatto pressione sul Governo per risolvere i problemi fronteggiati dai lavoratori del settore cinematografico, soprattutto nel dopoguerra. La ridefinizione produttiva e l’invasione di film americani, in un momento in cui il territorio italiano era occupato e conseguentemente soggetto ad un’inondazione di opere hollywoodiane,1 portarono, nel 1949, alla mobilitazione del settore e alla promulgazione della Legge Andreotti (Corsi 2001: 131-2). Eppure, quando compariamo la situazione italiana alla realtà europea – o a quella brasiliana – si nota che alcune leggi vigenti negli ultimi vent'anni in Italia sono state istituite in ritardo e assegnano un posto secondario alla relazione tra produzione e consumo di cinema autoctono – diversamente, ad esempio, da quanto accade nella struttura produttiva francese, caratterizzata da una politica fortemente protettiva del prodotto nazionale.

Parlare di cinema in senso politico-economico-produttivo richiede di superare l’innocenza di un’analisi meramente estetica. Sebbene importante, essa non deve essere dissociata da una comprensione dei mezzi produttivi che garantiscono la realizzazione dell’opera e che incidono sulla sua diffusione fra gli spettatori nazionali o internazionali, validando e determinando così il tempo di vita del film. Pertanto, dobbiamo – studiosi e produttori – affrontare le questioni di politica statale in merito ai prodotti culturali, soprattutto in questo momento di cosiddetta “austerità”, in cui il primo settore ad essere colpito e a soffrire una riduzione di investimento è proprio quello culturale.2

Un tema comune nell’orizzonte della politica culturale è quello che oscilla “fra la lamentazione e le barricate” (Cucco 2017): da un lato, un gruppo si lamenta accusando lo Stato di non controllare lo sviluppo creativo e commerciale del settore e di non investire abbastanza capitale né fornire sufficiente supporto logistico; dall’altro, fanno sentire la propria voce quei critici nemici “dello spreco e del malaffare di elargizioni clientelari o comunque dissennate” (Cucco 2017: 7-8), i quali affermano che il capitale – qui inteso come pubblico – deve essere usato meglio e in funzione delle necessità collettive da loro giudicate più adeguate – un discorso, questo, che adombra la forza liberatrice della cultura in un modo troppo pragmatico, volto unicamente alla monetizzazione o al controllo (censore) di quello che è prodotto con il denaro pubblico.

Ovviamente, un problema affrontato da tutti i Paesi che finanziano parzialmente opere d’arte, progetti e iniziative culturali in genere, è quello di come misurare l’effettiva applicabilità del valore investito come controparte sociale. In altre parole, come verificare che l’investimento – proveniente dai fondi governativi oppure dalle rinunce fiscali (in entrambi i casi si tratta di soldi pubblici) – arrivi in qualità di prodotto alla popolazione e in che misura questo prodotto sia utile, in primo luogo allo Stato, ma anche ai consumatori. Come suggerisce Marco Cucco, “se questi film non vengono visti dal pubblico, chi trae giovamento dalla loro qualità? […] significa che lo stato ha fatto un investimento culturale sterile” (2017: 17).

Storicamente, tanto il mercato audiovisivo brasiliano quanto quello italiano hanno affrontato crisi e sono ricorsi alla struttura politica finanziaria e amministrativa dello Stato come porto sicuro; una relazione che si fa più complessa con il passare del tempo e tanto più quando entrano in gioco la televisione e la politica di concessione e il modo in cui questo ente – diviso fra pubblico e privato – si posiziona politicamente rispetto al prodotto nazionale.

D’accordo con Barbara Corsi in merito alla relazione tra TV e cinema rispetto alla produzione filmica, la quale sostiene che “[…] in Italia [questa relazione; nota nostra] si traduce in un invito alla cannibalizzazione del più debole” (2001: 141), possiamo affermare che questa situazione è condivisa anche dal Brasile e da gran parte dei Paesi. In Italia esiste una pluralità di leggi concernenti il cinema e la televisione, la cui origine è da ritrovarsi nella Legge Andreotti (1949) – anche dopo le riforme del 1956 e del 1959 – e che è continuata con la Legge Corona (1965), la Sentenza 225 (1974), la Televisione Senza Frontiera (1989), la Legge 151 detta Decreto Mammì (1994), il Decreto Urbani (2004), la Legge Finanziaria n. 244 (2007), il Decreto Romani (2010), il Decreto Passera-Ornaghi (2013) e la Legge Franceschini (2013): una tradizione di costante dibattito e trasformazioni organizzative, politiche e di economia creativa che non inserisce necessariamente l’Italia nell’avanguardia produttiva, ma che in certi casi mostra – quando confrontiamo l’Italia con altri Paesi – un ritardo nella sistematizzazione e regolarizzazione per mezzo della legge.

La realtà brasiliana, dall’altro lato, ha visto – con l’estinzione dell’EMBRAFILME (Empresa Brasileira de Filmes Sociedade Anônima), vincolata al Ministério da Educação e Cultura, creata per mezzo del Decreto-Lei n. 862 del 1969 con l’obiettivo di realizzare “a distribuição de filmes no exterior, sua promoção, realização de mostras e apresentações em festivais, visando a difusão do filme brasileiro”3 – la chiusura di tutta l’attività cinematografica nazionale nell’anno del 1990, con il Programa Nacional de Desestatização (PND)4 voluto dal governo Collor. Mentre l’Italia si confrontava con la stagnazione cinematografica, tanto nella qualità quanto nello sviluppo economico, negli anni Ottanta (Cucco 2017: 33) in Brasile la media di spettatori per film nazionale – sotto la tutela dell’EMBRAFILME – raggiungeva approssimativamente i 239.000, il 30% in più rispetto ai film stranieri proiettati nelle sale brasiliane.5 Tuttavia, con la privatizzazione promossa a partire dal 1990, la produzione locale ha subito un rallentamento, per resuscitare superficialmente solo dopo il cosiddetto “cinema da retomada”6 nella prima metà della decade, in conseguenza dell’istituzione della Lei Rouanet (1991),7 della Lei do Audiovisual (1993)8 e della ANCINE – Agencia Nacional do Cinema (2001),9 equivalente al Tax Shelter e al Tax Credit italiani (Credito d’imposta) che regolamentano una politica di incentivo fiscale nell’ambito della quale lo Stato non è più l’unico o il principale finanziatore delle opere. Liberandosi così dall’obbligo fiscale, dalla responsabilità egemonica e dalla forza decisionale rispetto alla premiazione dei progetti artistici, lo Stato delega tale funzione all’iniziativa privata; nonostante ciò, si mantiene il finanziamento indiretto delle opere quando questo rende possibile la destinazione delle tasse che entrerebbero nei ricavi pubblici destinati al finanziamento delle produzioni, secondo la scelta dei contribuenti.

Ha così avuto inizio la regolamentazione di questa politica di finanziamento, in Brasile nel 1991 e in Italia appena nel 2004, per mezzo del Decreto Urbani e della successiva Legge Finanziaria n. 244 (2007) che stabilisce i parametri per il funzionamento del Credito d’imposta. Tale cambiamento di direzione, concernente il finanziamento pubblico del cinema, risolve la questione dell’enorme pressione sullo Stato – criticato per pratiche clientelistiche e di supporto concesso sistematicamente alle stesse persone – garantendo anche libertà di mercato ai produttori locali, che devono così cercare diverse fonti di finanziamento, intercettare potenziali risorse e, allo stesso tempo, stabilire una chiara connessione con il pubblico per avere un ricavo economico.

Ad ogni modo, questa diminuzione della partecipazione statale genera lacune nella tutela e nella protezione del prodotto filmico nazionale di fronte al divoratore, affamato ed espansionista mercato americano, così come indebolisce il suo potere di giudizio isonomico sulle nicchie nazionali antagoniste (ad esempio, i film dei giovani registi in contrapposizione ai film di registi rinomati, oppure i film meramente commerciali in contrapposizione ai film d’arte di estetica raffinata ma che faticano a raggiungere il pubblico medio). Questo finanziamento diventa pertanto un finanziamento sterile o una finestra istituzionale di approvazione statale che legittima la pratica predatoria del cinema commerciale “superficiale” su un cinema di prospettiva più specifica e minoritaria, depersonalizzando così – soprattutto attraverso l’istituzione di un reference system – la valutazione dei progetti e lasciando che questi si cannibalizzino l’un l’altro nella competizione per le risorse. Quanto alla potenziale inefficienza di questi meccanismi, Cucco afferma:

Nel caso che ci interessa, potremmo esemplificarlo così: lo stato prende soldi di tutti i contribuenti per far sì che un gruppo limitato di persone (tendenzialmente sempre le stesse) possa realizzare film sofisticati e noiosi affinché un ridottissimo pubblico di spettatori che abita nel centro delle città, ha un’età avanzata, un alto reddito e un elevato grado di scolarizzazione, possa passare pomeriggi e serate rilassanti nelle poche sale cittadine rimaste. Nel frattempo, la gran parte di quegli stessi contribuenti, con un minore capitale economico e culturale, affolla le multisale periferiche e spende di tasca propria, alimentando un’economia reale e simbolica che esula completamente all’intervento pubblico (Cucco 2017: 15).

Durante il secondo governo Berlusconi, l’allora Ministro dei Beni Culturali, Giuliano Urbani, emanò il Decreto Legge n. 72 del marzo 2004, il cosiddetto Decreto Urbani, che costituisce la prima significativa riforma dalla Legge Corona (1965) concernente la politica di finanziamento cinematografico; il decreto agisce regolamentando, ad esempio, il product placement e creando un reference system di valutazione e assegnazione automatica dei punteggi ai progetti in cerca di finanziamenti, attuando una modifica che non prevede più il meccanismo del fondo perduto, ma una sovvenzione del 50%, solo dopo che l’altro 50% sia stato coperto dai produttori; viene minimizzato in tal modo il rischio di danno economico alle casse pubbliche: “[…] lo stato spende inevitabilmente meno, ma cerca anche di spendere meglio, evitando forme di assistenzialismo, finanziamenti a fondo perduto, sostegno ad opere che non sono in grado di incidere economicamente e culturalmente” (Cucco 2017: 59). A questo proposito, il Ministro aveva affermato che “con la vecchia legge si spendeva tre volte di più rispetto alle prospettive di entrata” (Urbani 2004 apud Cucco 2017: 46).

In mezzo a questo binomio cinema-Stato c’è anche un terza parte che gioca un ruolo attivo: la televisione. Come si posiziona la televisione rispetto alla produzione filmica? Veicola in questo segmento un apporto finanziario significativo? Nel tentativo di costruire i loro palinsesti in modo tale da raggiungere il maggior numero di spettatori attraverso una programmazione che tocchi e conseguentemente alzi il valore del loro spazio commerciale, le televisioni brasiliana e italiana, sia private che pubbliche, hanno bisogno di una vasta gamma di film e serie, il che le obbliga a produrre contenuti propri oppure ad acquistare da produttori locali o stranieri, tanto da quelli di profilo già consolidato quanto dagli indipendenti. Nel caso delle emittenti private, ad esempio Mediaset o Rede Globo, queste si basano unicamente sull’ottenimento di capitale e profitto per i loro azionisti, anche se generalmente tale posizione è nascosta dietro al discorso del mecenatismo o dietro quello della tutela della cultura nazionale. Nel caso di un’emittente televisiva pubblica, per esempio Rai e TV Brasil, questa fornisce un servizio alla popolazione e mette quindi al primissimo posto la funzione comunicativa e il ruolo sociale della collettività, minimizzando, pertanto, la logica del profitto.

Ad ogni modo è stato grazie alla forza della legge che le emittenti televisive hanno iniziato a investire parte del profitto ottenuto nella produzione audiovisiva locale. Negli anni Ottanta la possibilità di sopravvivenza del film ha guadagnato una chance in più con l’estensione del mercato della distribuzione, che da questo momento è andato oltre le sale commerciali, entrando nella programmazione televisiva (libera o via cavo) e anche attraverso l’home video, molto forte nelle decadi seguenti, fino a declinare con l’ascesa della pirateria del mezzo virtuale e dello streaming: “Il ciclo di vita del film si allunga e la sala non è più la principale fonte di guadagno” (Cucco 2017: 24). Nelle parole di Luca Barra sui palinsesti, questo cammino dalla videocassetta al on demand sembra “(almeno in parte) superare le modalità distributive tradizionali dei programmi e l’esperienza di fruizione” (Barra 2015: 92).

Nel 1989 è arrivata in Italia la direttiva della Comunità Europea Televisione senza frontiere, nata nell’alveo della politica dell’Unione Europea di una logica standardizzata che fa riferimento ai protocolli adottati nella politica nazionale; questa obbligava i broadcaster pubblici e privati a investire parte dei ricavi “nella produzione audiovisiva europea realizzata da imprese indipendenti” (Cucco 2017: 38), stabilendo una conditio sine qua non per l’esistenza del cinema italiano, ovvero il coinvolgimento con la televisione, maggiore fonte di finanziamento degli anni Ottanta e Novanta (Rai e Mediaset).

Questa direttiva ha obbligato i broadcaster televisivi a riservare almeno il 50% della loro programmazione ai prodotti europei e a destinare ai produttori indipendenti il 10% del profitto/incasso se sono broadcaster privati o il 15% se sono pubblici. La regolamentazione va messa in relazione a una discussione politica/mercatologica più ampia e profonda, che vede da un lato il modello americano di libera scelta, predatorio e con circolazione e con meno intervento statale, e il modello europeo (molto sviluppato in Francia), in cui è compito dello Stato tutelare lo “spettatore-cittadino”, vittima dell’oppressione contenutistica del mercato e che dipende dallo Stato per un filtro preselettivo rispetto alla qualità del contenuto esibito. Sebbene questa logica sembri antiquata per le sue visioni protezioniste, è solamente con la regolamentazione del mercato e con una politica di tassazione delle grandi emittenti, cui si impone l’obbligo di investire localmente, e con l’istituzione della “quota dello schermo” per i film nazionali, che si può dare beneficio all’economia e alla cultura locali, che altrimenti sarebbero distrutte dall’avanzamento schiacciante dei prodotti americani, inesorabilmente colonizzatori delle realtà minoritarie: “Il dinamismo e l’aggressività statunitensi da una parte, il protezionismo e la staticità europei dall’altro” (Cucco 2017: 26).

In Italia la relazione fra TV e cinema è sotto la gestione dello Stato: “all’inizio degli anni Novanta è impensabile produrre un film senza il finanziamento di Rai o Fininvest, che a vario titolo intervengono nel 50-70% dei film prodotti, esigendo in cambio una parte dell’immaginario cinematografico” (Corsi 2001: 141). Questo non accadeva in Brasile prima della promulgazione della Lei da TV Paga (Legge della TV a pagamento; Lei n. 12.485/11), avvenuta nel 2011. Anche se la politica culturale di detrazione fiscale è stata legalmente istituita all’inizio degli anni Novanta e il mercato produttivo è cresciuto significativamente, c’è stata una rottura permanente tra il volume delle opere nazionali prodotte e le opere esibite; crisi, questa, intensificatasi con la chiusura delle sale, con l’obsolescenza delle aree centrali dei grandi centri urbani brasiliani, con lo spostamento socio-mercatologico delle assi di socialità ai centri commerciali, con la ritenzione delle sale allo schema distributivo americano…, insomma, con una lunga serie di fattori che, sovrapposti, hanno consolidato la situazione per cui il cinema brasiliano è molto prodotto ma poco visto.10

L’emanazione della Lei da TV Paga ha stabilito la quota per le emittenti locali o internazionali che commercializzavano il contenuto nel Paese, in quanto forma legalmente istituita di “promoção da língua portuguesa e da cultura brasileira” (ricordiamo qui che, così come l’Italia, il Brasile possiede un mercato linguisticamente circoscritto, sebbene numericamente molto maggiore se includiamo tutti i paesi lusofoni), di “estimulo à produção independente regional” e, soprattutto, di “vedação ao monopólio e oligopólio nas atividades de comunicação audiovisual de acesso condicionado” – il nome che si dà al servizio di trasmissione audiovisiva riservata esclusivamente agli abbonati (Congresso Nacional 2011). Viene stabilito un minimo di tre ore e trenta minuti settimanali di contenuti nazionali in prima serata11 (palinsesti tra le 18.00 e le 24.00 per adulti), di cui un 50% da destinarsi tassativamente a produzioni indipendenti e recenti (la metà delle quali deve avere meno di 7 anni). Questa legge amplia anche la quota nazionale per il numero di canali nei pacchetti messi in commercio, così come gli “impacchettatori” e i programmatori brasiliani (imprese responsabili dell’organizzazione dei prodotti audiovisivi), vincolati alle agenzie pubblicitarie e supervisionati da Ancine, Anatel12 e Receita Federal.13

Con la regolamentazione del settore – già con la Medida Provisória nel 2001 – viene istituita inoltre un’imposta chiamata Condecine (Contribuição para o Desenvolvimento da Industria Cinematográfica), generata ad ogni “veiculação, produção, licenciamento [e] distribuição” (Congresso Nacional 2011) del contenuto audiovisivo: tassazione per ogni opera e per ogni segmento in cui transita (casa di produzione, esibitori…), che promuove una somma tributaria significativa proveniente dalle opere pubblicitarie o “artistiche” che compongono il Fundo Setorial do Audiovisual “para aplicação nas atividades de fomento” (Congresso Nacional 2001: art. 34). Tale modifica – associata all’obbligo di investimento (30% dei ricavi) in opere provenienti dalle regioni più povere del paese (Nord, Nord-Est e Centro-Ovest), alla contrattazione di personale e struttura locali, all’apparizione di film commissions (in Italia già dal 1997, a partire dall’Emilia-Romagna) e al sostegno attivo alla produzione indipendente – ha generato una domanda di contenuti che ha reso possibile l’istituzione di varie case di produzione e lo sviluppo di un settore che va dalla formazione tecnica alla trasmissione. In questo modo, il sistema televisivo è costretto a investire nella produzione locale e a trasmetterla (cosa che non necessariamente garantisce la longevità delle imprese); nel ruolo di tutore, lo Stato obbliga i settori industriali informativi e finanziari della comunicazione a fare da controparte nell’operazione di incentivare lo sviluppo della cultura locale, investendo una percentuale dei loro incassi nell’economia regionale.

In linea con la normativa europea, nel 2013 è stato promulgato in Italia il Decreto Passera-Ornaghi, firmato dall’allora Ministro dello Sviluppo Economico, Corrado Passera, e dall’allora Ministro per i Beni e le Attività Culturali, Lorenzo Ornaghi; il decreto è incentrato “sulle quote di investimenti e di trasmissione che le emittenti televisive sono tenute a riservare alle opere cinematografiche di espressione originale italiana” (MiBACT 2013). In linea con il Decreto Urbani per quanto riguarda la definizione di “opere cinematografiche di espressione originale italiana” (ovvero in lingua italiana oppure in dialetti italiani), il Decreto Passera-Ornaghi ha stabilito l’obbligo di destinare il 3,6% dei ricavi complessivi della Rai al pre-acquisto, acquisto, produzione o finanziamento di opere cinematografiche italiane, e una somma del 3,2% netto a quelli di altre emittenti, così come ha obbligato le emittenti a trasmettere questi contenuti (che devono essere stati realizzati negli ultimi 5 anni) nell’1,3% (palinsesti non tematici) o nel 4% (tematici) del tempo totale di trasmissione per la Rai, e nell’1% (non tematici) o 3% (tematici) per le altre emittenti; questo in una continua e graduale progressione, che deve essere completata totalmente entro 30 mesi (programmazione) e 18 mesi (investimenti), a partire dal febbraio 2013. “All’interno di tale sotto-quota, una riserva del 70%, pari al 2,24% degli introiti come definiti al periodo precedente, è destinata complessivamente a produzione, finanziamento, pre-acquisto e acquisto delle opere” (MiBACT 2013: 5) nel caso delle emittenti televisive diverse dalla concessionaria.

Questo decreto traccia in modo molto adeguato un vincolo ambivalente – non come prima, quando solo la TV dettava le regole nella sua relazione con il cinema – stabilendo chiaramente il ridirezionamento di parte dei ricavi televisivi ottenuti “da pubblicità, televendite, sponsorizzazioni, contratti e convenzioni con soggetti pubblici e privati, provvidenze pubbliche, nonché da offerte televisive a pagamento di programmi di carattere non sportivo” (MiBACT 2013: 5), che andranno nel finanziamento diretto e nella compravendita o produzione di opere. La condizione di pre-acquisto si è dimostrata un grande alleato dello sviluppo produttivo, soprattutto per la possibilità “ibrida” in Italia di riuscire a trovare un finanziamento diretto (ad esempio Rai) in aggiunta al tax credit14 (debiti fiscali IRES, IRAP, IVA, IRPEF e altri contributi assicurativi e previdenziali) e al product placement, cosa che moltiplica le fonti di risorse15 e rende più facile la realizzazione dei progetti, soprattutto nel post-Decreto Urbani, in rifiuto del vecchio modello in cui lo Stato sosteneva il 90% dei costi totali della produzione a fondo perduto oppure il 70% dopo due anni di difetto attraverso il fondo di garanzia stabilito nel 1994.

3 Conclusione

Una situazione conflittuale tra una politica protezionista del cinema nazionale integrata alla TV (e suoi mezzi per diffondere i prodotti nazionali oppure di sostenerli) e una visione di libera scelta in cui viene data possibilità allo spettatore di trovare i prodotti audiovisivi che gli piacciono di più, è oggi una sfida costante in tutti i Paesi e consiste in una scelta indotta direttamente o indirettamente da molti fronti: politico, economico, culturale, etico e legale. Abbiamo visto, e ancora vediamo, una situazione senza una chiara via d'uscita, che non porti una forte influenza del discorso delle parti interessate, sebbene ci sia una strutturazione economica con i dati degli studi dei ricavi e delle spese, perché, ancora una volta, affrontiamo argomenti a sostegno di un cambio di direzione.

In questo articolo abbiamo brevemente passato in rassegna i profili generali delle leggi italiane e brasiliane sul finanziamento delle opere cinematografiche e dei loro mercati, soffermandoci su come queste svolgano una politica protettiva delle loro opere e obblighino le emittenti televisive a reindirizzare una percentuale dei loro ricavi al finanziamento oppure all’acquisto/pre-acquisto di opere regionali. Questo cambiamento legislativo e di politica culturale è in corso anche in altri Paesi. Tuttavia, soffermare l’attenzione sulle nostre mancanze nella gestione, sull'assenza di uno sguardo commerciale sul cinema (con tutti i suoi meccanismi creativi e industriali) e sul modo in cui abbiamo permesso che le emittenti televisive riempissero i loro palinsesti con film americani (che, sebbene non sia questa la sede per una discussione di carattere estetico, sono solitamente opere di basso livello e nemiche delle nostre economie), ci consentirebbe di capire in quali realtà si muovano i nostri film e perché siano più o meno conosciuti nelle nostre società.

Da un lato, abbiamo la possibilità di finanziare le opere nazionali ma affrontiamo anche il problema di una destinazione parziale (e a volte politicamente interessata) del denaro pubblico. Dall’altro, abbiamo la necessità di far sentire gli spettatori liberi di cercare quello che vogliono, col rischio però che essi diventino talvolta vittime di prodotti di basso livello ed economicamente (se pensiamo alla nostra economia della cultura) “pericolosi”. È così una sfida per lo Stato trovare un mezzo più chiaro attraverso cui si possa sviluppare il cinema nazionale, finanziarlo e contribuire alla sua crescita e indipendenza economica, non privando al contempo le persone del diritto di acquistare il prodotto straniero. Lo Stato deve finanziare o tutelare le opere più “adatte" con leggi specifiche o il mercato deve auto-regolarsi liberamente, secondo principi concorrenziali? Cosa ci sembra più importante (se fossero veramente opposte): la libertà di circolazione e la predominanza dei prodotti stranieri o il controllo e la quota che ci assicura una quantità significativa di contenuti nazionali nei palinsesti? Anche lo Stato deve finanziare con i fondi pubblici quell’arte riconosciuta come eccezionale, che arriva a poche persone che possono spendere tempo in sale di proiezione (ossia un finanziamento a fondo perduto) o dobbiamo destinare i soldi solo alle opere che permettono di avere ampi profitti, di pagare i costi di produzione, e che circolano abbastanza bene nella società, anche se non portano una”bellezza raffinata"?

Spesso chi pone queste domande mantiene uno sguardo sulla politica culturale e sui mezzi di finanziamento del cinema attraverso gli apporti legali e istituzionali, e forse non riesce a trovare una chiara risposta sul cammino che abbiamo intrapreso. Tuttavia, capire l’intervento dello Stato, le possibilità o lacune esistenti per fare il cinema e proiettare nostre opere proprio come conoscere i confini economici e culturali che ci circondano, sono fondamentali per studiare l'economia del cinema e pensare il cinema. La relazione tra la TV e il mercato cinematografico, sia in Brasile che in Italia, è stata sviluppata solo decenni dopo, e può aiutare la produzione regionale ad essere più forte, organizzata e continua, poiché può sistemare la destinazione di denaro e restare come un punto di arrivo delle opere già prodotte e ovviamente pagate, chiudendo così un circolo più organico e di sostegno dell'economia della cultura locale.

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MiBACT (2013), “Decreto ministeriale 22 febbraio 2013”, http://www.cinema.beniculturali.it/uploads/DA/2013/decretoquote_22313.pdf (ultimo accesso 04-07-2019).

Parlamento (2004), “Legge 21 maggio 2004, n. 128”, http://www.parlamento.it/parlam/leggi/04128l.htm (ultimo accesso 04-07-2019).

http://ctav.gov.br/2008/10/10/a-embrafilme/ (ultimo accesso 03-07-2019)

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http://www.anica.it/tipologie-di-investimento-tax-credit/tax-credit-alla-produzione-di-opere-cinematografiche-televisive-e-web (ultimo accesso 14-12-2020)

http://www.cinema.beniculturali.it/Notizie/2489/66/quote-trasmissione-e-investimenti-il-testo-del-decreto-firmato-da-passera-e-ornaghi/ (ultimo accesso 03-07-2019)

https://www.beniculturali.it/mibac/export/MiBAC/sito-MiBAC/Contenuti/Ministero/LegislaturaCorrente/Dario-Franceschini/Comunicati/visualizza_asset.html_231740378.html (ultimo accesso 03-07-2019)

https://www.beniculturali.it/mibac/export/MiBAC/sito-MiBAC/Contenuti/MibacUnif/Comunicati/visualizza_asset.html_522846628.html (ultimo accesso 03-07-2019)


  1. “Sul fronte opposto Hollywood, all’atto dello sbarco, intende riconquistare il mercato perduto, aiutarne la ripresa per far circolare più agevolmente i propri prodotti, impedire la rinascita della produzione italiana, assicurarsi una rete di alleanze e supporti necessari alla più perfetta riuscita di tutte le operazioni” (Brunetta 2010: 10-11).↩︎

  2. […] o orçamento discricionário do Ministério [da Cultura] que compreende as despesas sobre as quais os gestores têm poder de decisão – usadas para custeio, manutenção e investimento em políticas públicas – teve perda real de mais de 45% entre o final de 2014 e o final de 2017(de R$ 1,02 bilhão para R$ 553,4 milhões).” Jornal Carta Capital, Austeridade ameaça existência do MinC e mata políticas de cultura. 28 Giu 2018. Estratto da: (https://www.cartacapital.com.br/blogs/brasil-debate/austeridade-ameaca-existencia-do-minc-e-mata-politicas-de-cultura). “Na prática, o MinC hoje já se reduziu praticamente ao custeio e funcionamento de suas unidades” (Brasil debate 2018: 40). Traduzione: “[…] il budget discrezionale del Ministero [della Cultura] che comprende le spese sulle quali i gestori hanno il potere decisionale – usate per coprire il costo, la manutenzione e l’investimento nelle politiche pubbliche – ha subito una perdita reale superiore al 45% tra la fine del 2014 e la fine del 2016 (da R$ 1,02 miliardi a R$553,4 milioni).”↩︎

  3. Art. 2 – Decreto-Lei 862/1969. Estratto da: (http://www.planalto.gov.br/ccivil_03/Decreto-Lei/1965-1988/Del0862.htm).↩︎

  4. Lei 8031/90. Estratto da: (http://www.planalto.gov.br/ccivil_03/leis/L8031.htm).↩︎

  5. Dati del CTAV – Centro Tecnico Audiovisual, organo subordinato alla Secretaria do Audiovisual. Estratto da: (http://ctav.gov.br/2008/10/10/a-embrafilme/).↩︎

  6. “Cinema della Ripresa”. “O tão criticado dirigismo cultural dos tempos da Embrafilme agora deu lugar a um corporativismo das entidades de classe, já que foram essas entidades que […] selecionaram os projetos a serem financiados” (Marson 2006: 60). Traduzione: “Il tanto criticato dirigismo culturale dei tempi dell’Embrafilme ha lasciato adesso il posto ad un corporativismo delle entità di classe, visto che queste entità […] sono quelle che hanno selezionato i progetti da finanziare.”↩︎

  7. Lei 8313/91. Estratto da: (http://www.planalto.gov.br/ccivil_03/leis/l8313cons.htm).↩︎

  8. Lei 8685/93. Estratto da: (http://www.planalto.gov.br/ccivil_03/LEIS/L8685.htm).↩︎

  9. Medida Provisoria 2.228-1/01. Estratto da: (http://www.planalto.gov.br/ccivil_03/mpv/2228-1.htm).↩︎

  10. Os fatores que conduziram ao colapso […] [foram diagnosticados] por vozes diversas, e os vetores apontados incluíram: o esgotamento do modelo da pornochanchada, o fim do prêmio adicional de bilheteria, a pressão americana da Motion Pictures, via seu embaixador (com imunidade diplomática) Jack Valenti, contra as medidas protecionistas; a inflação galopante; o aumento dos preços do ingresso, o contra-ataque das grandes distribuidoras americanas, forçando os exibidores a entrar no comercio de liminares contra a lei de obrigatoriedade (obrigando-os a, desse modo, a sair da produção); a fragilidade da aliança com os exibidores e distribuidores; a invasão dos filmes de sexo explicito, disputando o mercado exibidor da pornochanchada; a ‘destruição’ das salas de exibição dos grandes centros urbanos (também pelo sexo explicito) e, evidentemente, a crise econômica mundial que se abateu sobre o pais a partir de 1982” (Abreu 2002: 146). Traduzione: “I fattori che hanno condotto al collasso […] [furono diagnosticati] da voci diverse, e i vettori hanno sottolineato: l’esaurimento del modello ‘pornochanchada’, la fine del premio addizionale del botteghino, la pressione americana della Motion Pictures, attraverso il suo ambasciatore (con immunità diplomatica) Jack Valenti, contro le azioni protezionistiche; l’inflazione galoppante; l’aumento dei prezzi del biglietto, la controffensiva dei grandi distributori americani, che forzava le sale cinematografiche ad entrare nel commercio delle legislazioni contro la legge dell’obbligo (obbligandoli, in questo modo, a uscire dalla produzione); la fragilità dell’alleanza con i cinema e i distributori; l’invasione dei film di sesso esplicito, che sfidava il mercato del cinema della ‘pornochanchada’; la ‘distruzione’ delle sale di proiezione dei grandi centri urbani (anche per il sesso esplicito) e, evidentemente la crisi economica mondiale che si è abbattuta sul Paese a partire dal 1982.”↩︎

  11. Regolamentato da Instrução Normativa n. 100 della Ancine.↩︎

  12. Agência Nacional de Telecomunicações; traduzione: Agenzia Nazionale delle Telecomunicazioni.↩︎

  13. Dipartimento delle entrate federali sottoposto al Ministério da Fazenda (Ministero dell’Economia).↩︎

  14. Muove tra i 115 e i 140 milioni all'anno (Cucco 2017: 67).↩︎

  15. Come Cucco (2014 apud Cucco 2018: 121) riferisce nel suo articolo, “una recente analisi del finanziamento del film La grande bellezza ha dimostrato come Indigo abbia usufruito di tutte le fonti oggi disponibili per un produttore: il Ministero dei Beni Artistici e Culturali e del Turismo, l’Unione europea tramite il Programma MEDIA, il Consiglio d’Europa tramite il fondo Eurimages, un fondo locale (in questo caso della Regione Lazio che ha ospitato le riprese), un broadcaster nazionale a cui è legato un importante distributore cinematografico (Mediaset/Medusa), il tax credit interno, il tax credit esterno (una banca e un biscottificio), il product placement e i partner stranieri (in questo caso tre società francesi).”↩︎