In principio, erano le infinite diramazioni dei film studies e le riflessioni sulla differenza tra il concetto di film amatoriale e quello di home movie. In principio, nel decennio compreso tra la metà degli anni Ottanta e la metà degli anni Novanta, a governare il dibattito era la triangolazione tra semiopragmatica (gli scritti di Roger Odin), storia culturale (le elaborazioni di Patricia Zimmermann) e antropologia visuale (le teorie di Richard Chalfen). In principio, erano i progetti di raccolta elaborati da cineteche e mediateche regionali, soprattutto in area francese - si pensi, per esempio, al ruolo di istituzioni come la Cinémathèque de Bretagne in Francia.
In seguito, gli studi sul cinema amatoriale hanno ampliato il loro spettro, seguendo due ondate distinte: la prima ha avuto come obiettivo principale quello di rimettere in discussione gli assunti di base degli studi di Chalfen, Odin e Zimmermann - si veda la questione del community mode in Ryan Shand, inteso come sviluppo e riforma del tema dell’home mode (di nuovo il riferimento è Richard Chalfen); la seconda ha trovato il proprio fulcro nell’aumento degli oggetti epistemici, muovendo dal cinema amatoriale (su cui continuano a essere pubblicati volumi di assoluto rilievo, come Amateur Cinema: The Rise of North American Moviemaking, 1923-1960 di Charles Tepperman) al video amatoriale e alle più recenti produzioni digitali – a tal proposito, una summa è rappresentata dalla tesi di dottorato di Tim van der Heijden, intitolata Hybrid Histories: Technologies of Memory and the Cultural Dynamics of Home Movies, 1895-2005.
Il volume Amateur Media and Participatory Cultures: Film, Video, and Digital Media, scritto a quattro mani da Susan Aasman e Annamaria Motrescu-Mayes, rappresenta il tentativo (riuscito) di sintetizzare queste due linee di tendenza, da un lato costruendo un piano di dialogo interdisciplinare tra una storica dei media (Aasman) e un’antropologa visuale (Motrescu-Mayes), dall’altro considerando l’amatorialismo come una serie culturale dinamica che attraversa circa un secolo di storia e tre orizzonti tecnologici - quelli del cinema, del video analogico e dei media digitali.
Ne emerge un quadro assai complesso in cui, a livello epistemologico, oltre alla storia dei media e all’antropologia visuale, vengono convocati anche gli studi culturali, le digital humanities, i film studies, l’archeologia dei media e lo studio delle culture digitali. Una simile stratificazione consente di elaborare una “cassetta degli attrezzi” assai utile per comprendere le genealogie dei media amatoriali in quando concrezioni sistemiche e per scandagliare in profondità le nuove pratiche partecipative connesse ai media digitali.
Il lettore può così attraversare i sei capitoli che costituiscono il volume muovendo dalla storia dei media amatoriali, intesa come la storia delle tecnologie e degli spazi di comunicazione che a esse si legano, alla riflessione sui dispositivi dei media amatoriali digitali, con un fuoco dedicato a piattaforme di condivisione come YouTube.
Altri snodi fondamentali sono la dialettica tra ephemeral e non-ephemeral, che caratterizza in maniera paradossale l’orizzonte digitale, e l’etica della rappresentazione mediale in un momento cruciale per le culture partecipative sorte grazie al web 2.0. In particolare, il quarto capitolo, scritto da Motrescu-Mayes, si concentra su tre aspetti delle culture partecipative, ossia la loro capacità di favorire l’elaborazione condivisa del trauma, la costruzione della soggettività individuale e collettiva e la denuncia dei bias impliciti delle ideologie dominanti.
Infine, il baricentro della riflessione si sposta dall’analisi della complessità del panorama amatoriale, con specifico riguardo alla questione della costruzione della memoria e di narrazioni storiche diverse da quelle “ufficiali” (motivo già caro a Patricia Zimmermann e a Karen L. Ishizuka, come emerge in Mining the Home Movie: Excavations in Histories and Memories del 2008), al rinnovamento della dimensione d’archivio che i nuovi prodotti digitali impongono – riguardo a quest’ultimo punto, Aasman, autrice del sesto capitolo, si concentra sulla vexata quaestio dello status archiviale di YouTube.
Come emerge da questa breve sintesi, sebbene il volume sia dedicato al complesso dei sistemi amatoriali che attraversa tre grandi orizzonti mediali (cinematografico, video-analogico e digitale), l’elemento più interessante concerne la riflessione sul regime scopico dell’era digitale. Più precisamente, ci si riferisce al tema del comportamento periscopico che, secondo Aasman e Motrescu-Mayes, i nuovi media consentono: la navigazione su Internet, infatti, permette di creare spazi di comfort in cui lo user, sentendosi protetto dalla propria online persona, interagisce con gli altri attraverso vere e proprie performance a soggetto. Al loro interno, riprende e si appropria di topoi discorsivi che affiorano dalle tendenze culturali più diffuse nel momento della creazione del prodotto digitale.
Tale comportamento rimanda, innanzitutto, alla supposta effimerità di simili contenuti, i quali, oltre a essere in apparenza sempre cancellabili, talvolta nascono già provvisti di una expiring date, come nel caso dei post di Snapchat: lo scudo degli user è dunque costituito sia da forme di mediazione che consentono di celare la propria identità “reale” sia dalla possibilità di manipolare a piacere il contenuto pubblicato o di programmare la sua scomparsa.
Questi elementi, secondo Aasman e Motrescu-Mayes, riflettono importanti aspetti ideologici legati al digitale. Come dimostrano diversi casi legali o la presenza di luoghi virtuali come l’Internet Archive e di strumenti come la Wayback Machine, nel momento in cui vi è un sistema di inscrizione, vi è una registrazione che lascia tracce. In altri termini, quando osserviamo i media amatoriali digitali, ci troviamo di fronte a un paradosso: prodotti che, per vocazione apparente, vengono descritti come privi di materialità, circolanti in eterei cloud proprietari e frutto dell’interazione di avatar, sono in realtà profondamente legati alla concretezza di circuiti e server interconnessi tra loro, al punto che un contenuto offline non scompare mai definitivamente e può essere facilmente riesumato.
Insomma, i nuovi media tendono a produrre contenuti user-generated “zombie”: i futuri storici della cultura dovranno necessariamente contare sul loro “risveglio” per comprendere la pervasività degli scambi digitali nella creazione e nel consolidamento delle reti sociali quotidiane durante il primo ventennio degli anni Duemila.