Che l’istituzionalizzazione dei Sound Studies potesse registrare una ricaduta anche sulla letteratura del cinema, andando a rinnovare la storia e la teoria del suono sul grande schermo, pareva uno sviluppo anche troppo facile da prevedere. Eppure, a quindici anni dalla loro “tenuta a battesimo” da parte di Michele Hilmes (2005), le ripercussioni restano meno numerose e più discontinue di quanto si potesse pensare. Paradossalmente l’attenzione al senso dell’udito predicata dagli esponenti del nuovo filone d’indagine sembra avere avvicinato al cinema la curiosità di studiosi tradizionalmente estranei alla disciplina, lasciando la stragrande maggioranza dei film scholars, se non del tutto indifferente, ben ancorata a riferimenti di più lungo corso. Una resistenza che si può tentare di spiegare, da un lato ricordando che gli studi cinematografici internazionali avevano in effetti conosciuto una riscoperta degli aspetti uditivi già tra gli anni Ottanta e Novanta, con il lavoro di Rick Altman e la sua “scuola” di allievi all’Università dello Iowa che precedono e in parte si sovrappongono alle storie culturali del suono tout court; dall’altro, con le fisiologiche difficoltà da parte di una disciplina consolidata a far filtrare istanze di diversa provenienza. Come suggerisce la stessa Hilmes sulle pagine del Cinema Journal (2008) non è la dimensione sonora in quanto tale, ma la convergenza tra suono e schermo, attraverso istituzioni, luoghi, forme, testi e situazioni di ricezione differenti, a fornire un sensibile punto di partenza per avviare ampie revisioni.
Il volume del docente della University of San Diego Antonio Iannotta, frutto delle ricerche dottorali condotte all’Università di Salerno fino al 2015, intende approfittare proprio di questa convergenza o, meglio, insinuarvisi per evidenziare lo scarto che le emissioni sonore, sia quando propriamente ascoltate sia quando inconsciamente “sentite”, registrano sul nostro vedere (“Il suono definisce sempre lo spazio della visione” è la frase inaugurale del testo). Lo fa però convocando un folto apparato teorico distante e di più lungo corso rispetto a quello che caratterizza le storie culturali del suono: già titolo e sottotitolo fanno intuire i punti di addensamento che guideranno il percorso. Laddove il richiamo alla nozione di “audiotattile” paga pegno a McLuhan e De Kerchove e alle interrelazioni tra media tecnici e umano sensorio, il riferimento all’“esperienza filmica” va inteso in chiave fenomenologica, con le dovute linee di discendenza che da Jean Luc Nancy portano al magistero di Vivian Sobchack e alle sue recenti rielaborazioni nella teoria del film (Elsaesser-Hagener 2009 su tutti).
È quindi soprattutto a una revisione degli aspetti corporei, sensoriali e affettivi che mira l’autore quando ripercorre la storia del cinema non già per concentrarsi su un periodo in particolare ma per servirsene come terreno di riscontro per misurare gli effetti di ogni “frattura tecno-percettiva” succedutasi dal diciannovesimo secolo a oggi. Un intento che, lungo i due primi capitoli, collocati prima e dopo l’avvento della sincronizzazione, induce a tracciare percorsi ampi attraverso un canone filmico ampiamente riconosciuto, ora cogliendo la comunanza tra stimoli sonori di diversa provenienza ora lasciando che siano le pellicole stessi a “parlare”, svelando allo spettatore la condizione nella quale si trova immerso. L’ultimo capitolo, che dà il titolo all’intero lavoro, contribuisce a rivelare questa prospettiva nel suo fondamento a posteriori, modellata cioè su un ideale di immersività che prende corpo soltanto in tempi recenti: il “cinema audiotattile” propriamente detto coincide, secondo Iannotta, con l’introduzione degli standard audio multicanale Dolby Surround, con l’istituzione della figura del sound designer e con l’ingresso in sala di acuti e silenzi inauditi, capaci insieme di completare “la conquista dello spazio acustico”. Le evoluzioni digitali vengono raccontati come ulteriori avanzamenti sullo stesso percorso, in grado sia di riarticolare la “resa” del reale sonoro, sia di perfezionare il dispositivo pan-acustico che circonda lo spettatore in sala.
Coerente con l’impostazione teorica che abbiamo sopra descritto, un’attenzione così esclusiva agli aspetti tecno-mediali e a quelli affettivi fa altresì intravedere margini per intriganti sviluppi futuri. Qualora l’autore intendesse estendere le proprie riflessioni dall’esperienza del film" a quella “del cinema” - prendendo in considerazione ad esempio gli aspetti pratici e contingenti che presiedono la riconfigurazione delle sale a ogni scarto tecnologico – o passare dal parlare di suono al parlare di ascolto – spostando così l’attenzione da registi e sound designer allo spettatore e all’intero paesaggio mediale che ne forma le abitudini – ecco che le istanze avanzate dagli studi sulle culture dell’ascolto potrebbero tornare di grande utilità. A presiedere la formazione del paradigma audio-tattile, c’è necessariamente una cangiante cultura dell’ascolto spettatoriale che non smette di “formarsi” nei contesti dentro e fuori la sala, rispondendo o contribuendo agli stimoli dati dall’apparato tecnologico; una storia, questa, ancora tutta da scrivere.
Bibliografia
Elsaesser, Thomas, Hagener, Malte (2009), Film Theory. An Introduction Through the Senses, London: Routledge.
Hilmes, Michele (2008), “Foregrounding Sound: New (and Old) Directions in Sound Studies”, Cinema Journal, (48)1: 115-117.
Hilmes, Michele (2005), “Is There a Field Called Sound Culture Studies? And Does it Matter?”, American Quarterly, (67)1: 249-259.