Cinergie – Il cinema e le altre arti. N.19 (2021), 231–249
ISSN 2280-9481

Gli sceneggiatori e la Multiple Authorship. Riflessioni preliminari tra sociologia politica e critica cinematografica

Rinaldo VignatiUniversity of Bologna (Italy); Istituto Cattaneo, Bologna (Italy)

Rinaldo Vignati is a political sociologist and a film critic and historian. As a political sociologist, he has taught at the Universities of Milan, of Milano-Bicocca, and of Modena-Reggio Emilia. Now, he collaborates with the Istituto Cattaneo of Bologna. He has published articles on Contemporary Italian politics, South European Society and Politics, International Spectator, and other journals. He is co-editor of La prova del No (Rubbettino, 2017) and Il vicolo cieco (Il Mulino, 2018). As a film historian, he is a member of the editorial board of Cabiria and is the author of Indro Montanelli e il cinema (Mimesis, 2019). He also wrote articles on Forum Italicum, The Italianist and other journals.

Ricevuto: 2020-05-20 – Versione revisionata: 2021-05-28 – Accettato: 2021-06-18 – Pubblicato: 2021-08-04

Screenwriters and Multiple Authorship: Preliminary Reflections Across Political Sociology and Film Criticism

Abstract

According to Crozier and Friedberg, organizations are not rational structures but arenas in which every actor is engaged in a struggle of power with other actors. The article adopts their approach in order to understand one of the most important features of film production, the relationship among directors and screenwriters. Most film critics and viewers tend to discuss films as if they are products of a single author (usually the director). The article challenges this view. It adopts a “multiple authorship” perspective and uses examples from the history of cinema to show how screenwriters have left their personal sign on films. In order to build a convincing theory of “multiple authorship”, it is necessary to understand the relations of collaboration and conflict among the numerous actors involved in making a film. Therefore, the article focuses on the relationship between directors and screenwriters and outlines a typology that identifies five different ideal types of relationship between these two crucial roles. The article aims to provide a first conceptualization for a sociological study about the activity of screenwriters and about their contribution to the making of a film.

Keyword: Authorship; Screenplay; Politics; Organization; Power.

“Cinema nuovo” […] pubblicò la nuova versione di Marcia nuziale: ma Solinas e io non figuravamo più fra gli autori. Singolare la risposta che mi dette Guido Aristarco quando mi lamentai con lui per quella omissione: “Non possiamo fare questione di nome fra noi!”. Fra noi chi? Noi eravamo dei giovani in cerca di qualche piccola soddisfazione. Visconti, insomma, non era noi: era lui!

(Ugo Pirro, Soltanto un nome nei titoli di testa, Einaudi, Torino, 1998, p. 26)

1 Introduzione

I manuali di sociologia dell’organizzazione mettono in guardia dalla semplificazione fuorviante, ma assai diffusa, che porta a vedere le organizzazioni come “imprese razionali, i cui membri collaborano per il raggiungimento di obbiettivi comuni” (Morgan 1992: 175-176). Di recente, Sorlin (2017: 32), interrogandosi sull’autorialità dei film, osservava che “facciamo fatica a trattare le opere creative senza riferirle a un’individualità”. Provenienti da ambiti disciplinari molto distanti, le due osservazioni appaiono fondate su presupposti simili (alla base delle due semplificazioni c’è la difficoltà a riconoscere la dimensione politica della realtà) e spingono la ricerca in una direzione convergente.

Di chi sono opera i film? Per Sorlin (2017: 32-39) questo è uno degli interrogativi fondamentali della sociologia del cinema. La discussione che segue, intrecciando strumenti e interessi conoscitivi della critica cinematografica e della sociologia, intende contribuire alla costituzione di una base per la ricerca empirica intorno a questa domanda.

Le questioni legate alla authorship costituiscono un campo di ricerca e di dibattito ampio (Gray e Johnson 2013, per una introduzione). Sebbene questo articolo si focalizza su un medium “vecchio” come il cinema (Gerstner e Staiger 2003) e trae i suoi esempi perlopiù dal passato, è consapevole che, in questo campo, i nuovi media digitali pongono sfide teoriche e interrogativi inediti, sollecitando nuovi sguardi anche sul passato. Se l’autore resta una figura “difficilmente eliminabile” (Pescatore 2006: 21), gli studi contemporanei, alla luce delle trasformazioni indotte dai nuovi media, tendono a vedere la authorship sempre più come un “contested terrain rather than a stable designation” (Chris e Gerstner 2013: 11).

L’articolo nasce da un’insoddisfazione: pur con significative eccezioni, l’identificazione del regista quale unico autore del film resta largamente prevalente e questo lascia in ombra aspetti importanti della genesi e del significato dei film, restituendoci una storia del cinema che non permette di cogliere molti dei fili che li legano tra loro. Non si tratta solo delle pratiche discorsive adottate dalla pubblicistica cinematografica. Questo modo di intendere i film, e la loro storia, ha ripercussioni istituzionali. Se – per citare ancora Pescatore (2006: 22) – la categoria dell’autore serve a “piantare dei paletti, segnare dei confini”, questi paletti delimitano in modo rilevante il modo in cui i film – soprattutto quelli del passato – vengono presentati e arrivano al pubblico. Il lettore pensi alla programmazione delle cineteche e dei festival che ha frequentato: ricorderà certamente numerose retrospettive dedicate ai registi, un buon numero incentrato su attori, nazioni o generi, e solo in rarissimi casi cicli dedicati ad altre figure come gli sceneggiatori.

La fatica di trattare le opere creative senza riferirle a un’unica individualità, di cui parlava Sorlin non riguarda, d’altra parte, solo il cinema. Spesso la ritroviamo anche in riferimento ad altri ambiti creativi: si pensi alle serie televisive e all’identificazione dello showrunner come “creatore onnipotente” (Mittell 2017: 203) oppure a come, per molti, Steve Jobs sia l’autore dei prodotti Apple (Chris e Gerstner 2013: 5).

I tentativi, da parte degli studiosi di media, di andare oltre l’individualità e di introdurre una dimensione collettiva nella concezione dell’autorialità, spesso finiscono però per rappresentare l’organizzazione attraverso la metafora fuorviante dell’organismo (Grodal 2004: 30) e per aderire a un paradigma di tipo collaborativo che, se fa entrare in scena figure diverse dal regista, attribuisce loro un ruolo sostanzialmente vicario: il braccio necessario affinché il regista possa realizzare la propria intenzionalità, non una mente dotata, a sua volta, di una propria intenzionalità e capace di azioni strategiche.

Occorre riportare con più decisione la politica dentro al quadro e considerare che, in un’organizzazione, ciascun attore è portatore di intenzionalità (di natura artistica o d’altro tipo): all’interno di regole formali che attribuiscono poteri e responsabilità, e di un contesto che definisce vincoli e opportunità, ciascuno si muove per sfruttare gli spazi di libertà che gli sono concessi e mettere in atto azioni strategiche. I diversi soggetti impegnati in un’organizzazione cinematografica possono dunque dar vita a diverse configurazioni di “potere”.

L’articolo si focalizza sul rapporto tra regista e sceneggiatore, per evidenziare come l’opera di uno sceneggiatore possa lasciare segni della propria intenzionalità sulle opere finite e delineare le modalità con cui registi e sceneggiatori strutturano i loro rapporti. L’obiettivo è quello di incoraggiare, da un lato, il critico, lo storico del cinema e il curatore di retrospettive a indagare intorno ai fili che legano tra di loro le opere scritte da uno sceneggiatore, e, dall’altro, il sociologo a esaminare i rapporti tra regista e sceneggiatori come rapporti di scambio e di potere attraverso cui i diversi soggetti agiscono per affermare nel film la propria intenzionalità.

2 Due modelli organizzativi

Nella sociologia dell’organizzazione una contrapposizione analitica fondamentale è quella tra modelli di scopo (o razionali) e modelli politici. Per i primi l’organizzazione è come “una costruzione artificiale modellata sui suoi fini istituzionali”, in cui i “managers svolgono un ruolo analogo a quello del sistema nervoso centrale nel coordinamento dei movimenti del corpo umano. L’organizzazione è concepita come un attore” (Panebianco 1989: 256). Nei modelli politici, al cui sviluppo hanno dato un contributo fondamentale Crozier e Friedberg (1978), l’organizzazione è invece vista come un’arena in cui si muove una pluralità di attori con obiettivi anche diversi. Ciascuno di questi attori utilizza le risorse di cui dispone per perseguire i propri fini, in collaborazione, ed eventualmente in contrapposizione, con gli altri attori che ne fanno parte.

In un’organizzazione particolare come quella che vede un gran numero di artisti e tecnici collaborare per la realizzazione di un film quale dei due approcci risulta più adeguato? Pur con alcune peculiarità, lo studio system hollywoodiano, l’organizzazione per eccellenza della produzione cinematografica, è stato spesso descritto in riferimento al taylorismo, ovvero l’esempio per antonomasia del modello razionale (Schatz 1988, Staiger 1979, 1983, 1987, Davis 1993): “mass-production, standardized designs, concentration of the whole production cycle in a single place, a radical division of labor, the routinizing of workers’ tasks, even the after-hours surveillance of employees” (Ray 2011: 178). L’organizzazione degli studios ha al proprio vertice il produttore: ogni ruolo previsto dalla divisione del lavoro deve rendere conto al produttore. “MGM, the most financially successful studio, maintained a stark division of labor, with actors, writers, and even directors having little control over such matters as casting and editing. The producers ran the show, and when director Erich von Stroheim turned in a twelve-hour-long Greed, thereby violating one of the crucial rules of ‘the one best way’ to make a movie, MGM’s head of production, Irving Thalberg, simply locked him out of the studio and cut the picture down to standard length” (Ray 2011: 180).

Le cose sono però più complesse e sfaccettate. Anzitutto, lo studio system ha iniziato ad essere smantellato fin dagli anni ’50, per essere progressivamente sostituito da una forma completamente differente di organizzazione del processo produttivo, caratterizzata dalla presenza di single-project organization (Faulkner e Anderson 1987, Christopherson 1996, Paul e Kleingartner 1996): il film diventa così il prodotto di un’organizzazione temporanea creata con l’obiettivo circoscritto della realizzazione di un singolo film e i collaboratori non sono più dipendenti ma freelance ingaggiati per uno specifico progetto (Christopherson e Storper 1989, Wasko 1981).

D’altra parte, anche quando era nel pieno del suo vigore, lo studio system, in cui i registi e gli sceneggiatori erano degli impiegati, è sempre stato messo in discussione, dall’interno e dall’esterno. Dall’interno da quei soggetti, in primis i registi, che hanno cercato di espandere i propri margini di manovra, lottando – con le diverse armi a loro disposizione – per far sentire la propria voce e per mantenere spazi di libertà nei confronti dei produttori: “while some directors floundered against the pressures of the studio system, many in fact flourished, using the rules of genre as convenience rather than constraint, as guidelines from which to deviate or deepen rather than blueprints to follow” (Grant 2007: 56). Le biografie dei principali registi hollywoodiani sono piene di episodi che rivelano le strategie – legali, tecnico-artistiche o, in senso lato, “politiche” – da loro messe in atto per salvaguardare il proprio lavoro da possibili manomissioni da parte dei produttori, a cui spettavano le decisioni finali sui film, e per acquisire maggior voce in capitolo e maggiore visibilità. Tutti questi esempi possono essere letti con le chiavi interpretative fornite da Crozier e Friedberg, secondo cui il potere di ogni attore all’interno dell’organizzazione dipende dal grado di controllo su determinate “zone di incertezza” che rappresentano altrettante fonti di potere (i due studiosi ne elencano quattro: il possesso di competenze, il controllo sulle relazioni dell’organizzazione con i suoi ambienti, il controllo delle comunicazioni e delle informazioni, e infine le regole organizzative formali – Crozier e Friedberg 1978: 55-60). I registi utilizzano dunque le risorse a loro disposizione per mettere in atto azioni strategiche al fine di accrescere i propri margini di manovra rispetto ad altri attori coinvolti nell’organizzazione del lavoro collettivo a cui partecipano. Le competenze tecniche sono, ovviamente, uno strumento utilizzato dai registi per sfruttare a proprio vantaggio gli spazi di libertà che esistono anche nella più ferrea organizzazione tayloristica (un regista come Ford – Gandini 1998: 116 – era, ad esempio, noto per la capacità di girare il materiale in modo tale da rendere difficoltoso, se non impossibile, che la produzione lo manomettesse con montaggi diversi da quello da lui immaginato). Il controllo sulle comunicazioni all’interno dell’organizzazione costituisce un altro ambito di competizione e potenziale conflitto (Bogdanovich 1990: 22 riferisce brevemente un aneddoto pittoresco ma sintomatico sul set di Ford). I registi possono poi mettere in atto azioni di tipo legale, attraverso alleanze strategiche e rivendicazioni collettive (Capra 1989) per affrancarsi dai vincoli stringenti posti dalla produzione tayloristica dello studio system e per ridefinire a proprio favore le regole e gli equilibri di potere.

Dall’esterno, la sfida proveniva da quei critici che, nei prodotti realizzati nell’ambito dello studio system, coglievano una gerarchia di contributi differente da quella disegnata formalmente dall’organigramma dello studio. Valorizzando il contributo dei registi al di sopra delle costrizioni degli studios, nello sguardo dei giovani critici dei “Cahiers du cinéma” (la cosiddetta “politique des auteurs”) è implicitamente presente una rappresentazione per l’appunto “politica” dello studio system nella quale i registi sono in grado di mettere in atto strategie che consentono loro di affermare la propria visione malgrado, e contro, l’ottica dei manager.

Nel tempo, la politique des auteurs diventa però dogma – nella auteur theory di Andrew Sarris e nella pratica corrente della quasi totalità dei critici – e, attribuendo aprioristicamente qualsiasi scelta al regista-autore, scoraggia l’analisi critica intorno al contributo dei diversi collaboratori all’impresa-film. Com’è facilmente osservabile da uno spoglio delle recensioni, sia della stampa quotidiana che delle riviste specializzate, è al regista che si attribuiscono le scelte fondamentali ed è unicamente rispetto alla sua carriera che si cerca di definire lo stile personale e un profilo autoriale. In tal modo non si riesce vedere la politica che, come in qualsiasi altra impresa collettiva, è alla base della realizzazione di un film, ossia le complesse relazioni di scambio dalle quali nasce.

Fuori da ogni connotazione derogativa che ha nell’uso comune, il termine “politica” è qui da intendere, in senso lato, come l’attività che, in qualsiasi ambito sociale, si propone di produrre ordine dalla diversità, trovando strumenti per regolare i conflitti che esistono fra i diversi individui. La politica è presente in ogni relazione umana. Il potere, elemento fondamentale della relazione politica, nasce – come spiega Infantino sulla scia di una prospettiva individualista ispirata da Simmel e Weber – dalla necessità della cooperazione tra gli individui in un contesto in cui ciascuno ha bisogno dell’altro per realizzare i propri obiettivi e soddisfare i propri bisogni: “per procurarsi i mezzi necessari alla realizzazione dei propri progetti, ciascuno deve cooperare con gli altri. Poiché però la cooperazione assegna vincoli e coefficienti di libertà, ognuno cerca di difendere o migliorare il proprio posizionamento sociale. La cooperazione genera potere e, per questa ragione, genera anche conflitto” (Infantino 2013: 44). Nello scambio con l’altro si creano rapporti di sovra e subordinazione, legati al differente coefficiente di autonomia e libertà con cui ciascun individuo entra in questa relazione.

Il riferimento alla politica potrebbe apparire inappropriato quando si parla di lavori artistici, poiché richiama, da un lato, l’idea di compromesso,1 e, dall’altro, enfatizzando la costrizione, sembra negare la libertà. Dare per scontato che la paternità dell’opera sia da attribuire al regista, trascurando in quanto meramente subordinato l’apporto degli altri collaboratori, significa applicare al cinema un’idea del lavoro collettivo priva di una dimensione politica.

Anche all’interno di un’organizzazione artistica, si trova in realtà una pluralità di individui che mettono in atto azioni di cooperazione e competizione, e che danno vita a rapporti di scambio, al fine di realizzare i propri obiettivi, creando, a seconda dei casi, intese di lunga durata, coesistenze strumentali, accordi precari o conflitti distruttivi. E questo dovrebbe portare a una concezione empirica dell’autorialità, ossia a una sua identificazione come fenomeno sociale non definibile aprioristicamente.

Fino a quando un connubio funziona, gli stessi partecipanti tendono a raffigurare la collaborazione nei termini di una comunione che fa scomparire gli individui lasciando visibile solo il gruppo, l’insieme. Si tende a negare, in questa fase, l’esistenza di conflitti, tensioni e compromessi. Questi tenderanno ad emergere nel momento in cui una collaborazione giunge al termine, specialmente se si tratta di una rottura non consensuale. In questo caso, è possibile che ogni partecipante avanzi retrospettivamente recriminazioni (esempio significativo è la rottura fra Guillermo Arriaga e Alejandro González Iñárritu). Se in caso di rottura rivendicazioni e conflitti vengono alla luce in misura ingigantita, e persino patologica, nella fisiologia del lavoro collettivo è inevitabile che le divergenze e i contrasti esistano, così come i tentativi di imporre – con strategie diverse – la propria posizione su quelle di altri che abbiano idee differenti.

La percezione del lavoro collettivo che sta dietro la realizzazione di un’opera cinematografica, e di queste divergenze, è però nascosta dal fatto che sia il comune spettatore, sia i critici spesso, nell’accostarsi alla visione di un film, sono guidati dal mito romantico dell’autore (Stillinger 1991) che obbliga a riconoscere dietro la sua realizzazione la firma di un singolo individuo, allo stesso modo di un quadro o di un romanzo. Per la verità, anche in campi come la pittura o la letteratura, da tempo gli studiosi hanno evidenziato come dietro le opere attribuite a un singolo individuo vi possa in realtà essere l’influenza anche di altre persone che hanno lasciato su di esse un segno (Becker 1974, 2004, Wolff 1981).

Questo vale tanto di più in un ambito come quello cinematografico, dove, a parte rare eccezioni – certi film sperimentali o d’animazione, i cortometraggi “solipsistici” di Giulio Questi – è inevitabile che la realizzazione coinvolga numerose persone. Contrariamente all’idea della single authorship, ossia della visione del film incentrata sul singolo autore, predominante nel senso comune e nella pratica critica (e sostenuta da studiosi come Livingston 1997), alcuni autori – filosofi, sociologi, storici del cinema – hanno dunque affermato l’idea della “multiple authorship”, fondata sulla natura collaborativa (io preferisco dire “collettiva”, perché il termine “collaborativa” può creare equivoci) dell’authorship in campo cinematografico (Sellors 2007, Stollery 2009). Gaut (2010: 132), in particolare, ha approfonditamente argomentato a favore di una visione dei film che incoraggia a considerarli allo stesso modo del jazz, “as a product of many individuals, whose work is inflected in a complex manner by their interactions with their colleagues”. La definizione è interessante perché mette l’accento sul lavoro di individui e sulle loro interazioni (e sulla conseguente possibilità di conflitti, di cui i suoi testi forniscono alcuni esempi).

Chi si ferma a leggere i titoli di coda di un film vedrà elencate centinaia di persone che vi hanno contribuito. Dobbiamo considerare ognuno di loro co-autore? È evidente che portare l’idea dell’autorialità collettiva fino a questo estremo la renderebbe priva di utilità.2 Autore è da considerare chi contribuisce al film in maniera non casuale o svolgendo attività meramente esecutive (Gaut 2010). A partecipare di questa authorship collettiva possono dunque essere diverse figure: montatori (Murray 2014, Michaelis 2015), direttori della fotografia (Liberman e Hegarty 2010, Cowan 2017), attori (Gaut 2010, McGilligan 1982, Levy 1988), produttori (Pardo 2010).3 Più di chiunque altro, è però lo sceneggiatore che può reclamare diritti sulla paternità dell’opera. È a lui che (a meno di interventi in sede di riprese) si devono i dialoghi e l’invenzione delle situazioni narrative. La rivendicazione di autorialità da parte di figure come i montatori o i direttori della fotografia è stata fatta sporadicamente, in relazione a singole personalità particolarmente autorevoli e quindi capaci di incidere sulle decisioni finali. Il rapporto tra sceneggiatore e regista, e la priorità sulla paternità del film, è stato invece considerato come un nodo fondamentale per la comprensione della creazione cinematografica, ed ha suscitato nel tempo un dibattito ben più generale, che trascende le traiettorie di singole personalità.

In Italia se ne discusse molto tra la fine degli anni ’30 e gli anni ’40, spesso utilizzando il teatro come termine di paragone – nel 1941 venne approvata una legge che identificava l’autore del film in quattro figure (soggettista, sceneggiatore, regista e compositore della musica). Nel 1940, la rivista “Film” (dal numero 34 al numero 49) interrogò numerosi intellettuali e personalità del cinema per chiedere a chi dovesse essere prioritariamente attribuita la paternità del film. Tra le 77 risposte non emerse una posizione dominante. Ci fu chi optò decisamente per il regista, chi, sulla base del parallelo col teatro, attribuì maggiore rilevanza al soggettista e allo sceneggiatore e chi, sottolineando il carattere industriale del cinema, pose l’enfasi sul ruolo del produttore come figura che ha il compito di scegliere i vari collaboratori e coordinarne il lavoro. Vi fu chi, infine, ritenne impossibile, sul piano estetico, dare una risposta valida una volta per tutte. Luigi Chiarini (1940), all’epoca il massimo teorico del cinema nel nostro paese, sostenne che “il problema dell’autore per il film non varia rispetto alle altre arti, perlomeno a quelle in cui si presenta la possibilità o l’esigenza della collaborazione. Perciò, per conoscere l’autore del film, bisogna, come per tutte le altre arti, conoscere prima il film. Voglio dire che non è possibile stabilire degli elenchi precisi in base alle rispettive funzioni, perché l’apporto creativo è dato, volta a volta, secondo il carattere dell’opera e il talento dei partecipanti. Così in un film la musica può avere una grandissima importanza, ma può anche darsi che non ne abbia alcuna”.

Rilette congiuntamente, le risposte al referendum rivelano spesso un orientamento “corporativo” – molti tendevano a dare priorità alla categoria a cui appartenevano – e un carattere più programmatico che descrittivo. Oggi, le risposte sarebbero impostate in modo ben diverso (pochi userebbero il teatro come termine di paragone per giustificare la primazia del soggettista e dello sceneggiatore). Ma oggi, nella percezione dello spettatore mediamente colto e del critico è talmente dominante l’identificazione del regista come autore, che la stessa domanda difficilmente sarebbe posta, o quantomeno faticherebbe a trovare un così largo spazio su una rivista ad ampia diffusione com’era allora “Film”.

La questione rimane tuttavia rilevante e sollecita tanto la critica, interessata alla comprensione delle opere cinematografiche e alla ricostruzione dei fili che le legano, quanto la sociologia, interessata a ricostruire le dinamiche sociali attraverso le quali i film prendono forma, a porre al centro dei loro discorsi la consapevolezza della pluralità di contributi che sono all’origine di un film. Seguendo l’impostazione adottata in questo articolo nel quale si intrecciano questi due approcci disciplinari, nel prossimo paragrafo, citando alcuni esempi cinematografici, si metterà in evidenza come gli sceneggiatori possano lasciare tracce visibili del loro contributo nelle opere finite, mentre nel successivo si abbozzerà una possibile tipologia di come, concretamente, possono strutturarsi i rapporti tra regista e sceneggiatore.

3 Il segno degli sceneggiatori

Riferendosi alla collaborazione di Bernardino Zapponi con Dino Risi e con Federico Fellini, Mancino (2014) parlava delle “discontinuità” che la sua presenza aveva determinato nelle filmografie dei due registi. Il termine appare particolarmente appropriato: lo sceneggiatore non è solo un collaboratore tecnico che esegue le direttive del regista, o che, dopo aver scritto un copione, lascia al regista la piena libertà di manipolarlo: naturalmente, nella realtà i rapporti tra regista e sceneggiatore possono anche configurarsi in questo modo, ma in altri casi lo sceneggiatore cercherà di mettere la propria “firma” e di difendere le sue idee da possibili “manipolazioni”. Se al sociologo spetta di esaminare empiricamente la configurazione dei rapporti di potere tra regista e sceneggiatore, e le azioni strategiche messe in atto da ciascuno di loro per affermare la propria intenzionalità, al critico e allo storico del cinema spetta il compito di allenare l’occhio a cogliere non solo l’impronta autoriale del regista, ma anche l’impronta dello sceneggiatore. Nella lettura dei film è opportuno dunque tener presente la personalità, le idiosincrasie, le esperienze di uno sceneggiatore. Queste, a volte, possono fare la differenza e introdurre, come si diceva, delle discontinuità. Ad esempio, confrontando i due film di Nanni Moretti che hanno per tema Berlusconi e il suo successo (Aprile, 1998, Il caimano, 2006) e individuandone le differenze, si possono avanzare delle ipotesi circa il contributo di Francesco Piccolo (che ha partecipato, come sceneggiatore, solo al secondo): se nel primo film la rappresentazione di Berlusconi tende a un certo manicheismo (Berlusconi, i leghisti, Emilio Fede sono alieni, rispetto ai quali il film afferma, con attonito stupore, la propria totale estraneità, accusando la propria parte politica di non aver saputo porre degli argini efficaci), nel secondo film diventa più articolata, attraverso una narrazione – in assonanza col “che sarà mai” che è uno dei leitmotiv del libro Il desiderio di essere come tutti di Piccolo – che si concentra in larga misura su due personaggi le cui vicende non hanno nulla a che vedere con la divisione tra berlusconiani e antiberlusconiani, e attraverso l’introduzione di elementi di ironia verso la “superficialità” (termine ricorrente dello stesso libro) di alcuni esponenti del campo antiberlusconiano (l’attore impegnato, ecc.) (Vignati 2015).

Attraverso un minuzioso confronto tra varie stesure di uno stesso copione, e tra queste e il film concluso, Alonge (2012) ha portato alla luce in modo molto vivido la figura di Ben Hecht, riflettendo con estrema chiarezza intorno alle collaborazioni tra questo sceneggiatore ed alcuni registi (Hawks, Hitchcock) e fornendo una mappatura particolarmente dettagliata dell’immaginario intorno a cui si articolano i suoi testi per il cinema. La fascinazione per la metropoli (in particolare Chicago), di cui Hecht è stato un cantore, è un primo elemento tematico caratterizzante, accanto alla presenza come protagonista dello scoundrel, la “canaglia”, “un individuo dalle qualità eccezionali, determinato a imporre la propria volontà a ogni costo”, “riproposizione in ambito cinematografico dell’eroe di stampo nietzschiano dei romanzi di Hecht degli anni venti” (Alonge 2012: 196-197): “la fascinazione per l’underworld da parte di Hecht è un tratto personale, biografico: Hecht aveva frequentato quel mondo da giovane” (Alonge 2012: 202). E poi, la frequente presenza di citazioni classiche e di riferimenti alla storia europea, ed anche una certa tendenza ad inserire componenti fantastiche che portano il plot verso i territori del “realismo magico”. Oltre che per queste ricorrenze tematiche, gli scripts di Hecht presentano tratti identificabili grazie allo stile della scrittura: dalle scelte lessicali (vi sono parole – to reform, hoarse, ecc. – che ricorrono con particolare frequenza nei suoi testi) all’inclinazione all’aforisma e, più in generale, alla “sintesi icastica” (Alonge 2012: 222).

Dalton Trumbo era uno sceneggiatore noto per la sua velocità di lavoro e per la sua abilità nell’applicare il proprio talento su generi molto diversi. Molto del suo lavoro è avvenuto su commissione e rispondeva non a ispirazione personale ma a richieste esterne (soprattutto negli anni del maccartismo in cui la sua forza contrattuale era al minimo e doveva accettare qualsiasi lavoro). Sembrerebbe quindi che la sua vasta filmografia, firmata negli anni in cui era blacklisted con pseudonimi o prestanomi, renda difficile, se non impossibile, individuare un percorso “autoriale”. In realtà, partendo da alcune costanti (la ricorrente presenza di mutilazioni fisiche o di scene in cui una collettività si trasforma in un solo individuo), si può cogliere nei suoi film una riflessione sull’America, sulle sue trasformazioni e sulle sue ferite (il corpo mutilato è metafora dell’America – si confrontino, ad esempio, Missione segreta, Thirty Seconds over Tokyo, 1944, di Mervyn LeRoy, e Solo sotto le stelle, Lonely Are the Brave, 1962, di David Miller), legate soprattutto alla seconda guerra mondiale e ai cambiamenti della democrazia americana negli anni della guerra fredda (Vignati 2016a).

Come già si notava a proposito di Hecht, anche il lavoro sul linguaggio può contribuire a definire il profilo autoriale di uno sceneggiatore. Si pensi, ad esempio, allo “scrupolo filologico verso i linguaggi sociali e gergali” di Age e Scarpelli (Comand 2018), o alle sceneggiature di Luigi Malerba dove, in continuità con i suoi libri, “la parola […] è creazione di mondi possibili, periferici, in cui la realtà è data dal nostro personale sentimento” (Lanzi 2019: 95).

L’opera di uno sceneggiatore può essere caratterizzata non solo da temi ricorrenti o da scelte linguistiche, ma anche da elementi strutturali. Gli scripts di Jean-Claude Carrière, ad esempio, sono spesso caratterizzati da una struttura “pseudo-circolare”, con un finale che sembra ritornare al punto di partenza ma che introduce delle variazioni che rendono la “normalità” a cui si giunge in conclusione solo apparente, e quindi fonte di inquietudine e di dubbio nei confronti della solidità della realtà sociale e delle sue istituzioni, nonché della possibilità di conoscere l’altro. Si pensi al finale di Bella di giorno (Belle de jour, 1967) di Luis Buñuel che ci mostra la protagonista e il marito in una situazione che sembra configurare un tranquillo e felice ménage borghese, come all’inizio del film (ritorna la stessa frase – “a cosa pensi, Séverine?” – udita in apertura, subito dopo l’incipit onirico). La storia racchiusa tra questi due “a cosa pensi?” ci dice però che quell’immagine è una superficie che nasconde fantasie e segreti e che quindi nessuno dei due coniugi può essere certo di conoscere l’altro. Molti anni dopo troviamo lo stesso ritorno apparente alla “normalità” in Birth – Io sono Sean (Birth, 2004) di Jonathan Glazer: Nicole Kidman convola a nozze col fidanzato, com’era previsto sin dall’inizio, ma, anche qui, tutto quel che è avvenuto nel frattempo lascia lo spettatore con i medesimi dubbi. Se si indaga la filmografia di Carrière si troveranno, in modi diversi, altre strutture pseudo-circolari (L’inganno, Die Fälschung, 1981, di Volker Schlöndorff, Il ritorno di Martin Guerre, Le retour de Martin Guerre, 1982, di Daniel Vigne, Max mon amour, id., 1986, di Nagisa Oshima), che riportano al punto di partenza, ma solo per demolire le certezze che potevamo avere intorno alla realtà di quel punto di partenza. Carrière (in McGrath e MacDermott 2003: 86), afferma che, “per quanto sia difficile, lo scrittore dovrebbe introdurre qualche elemento di confusione dentro le certezze e dentro la realtà”: una dichiarazione d’intenti che può aiutare a capire il proficuo connubio creatosi tra lo sceneggiatore e Buñuel (“I suspect that he was an angel of enablement for Buñuel on some of the smartest, funniest, and flat-out best movies ever made”, Thomson 2003: 138).

Questi esempi, volutamente riferiti a contesti artistici e produttivi differenti, servono a mostrare come gli sceneggiatori possano lasciare un segno individuabile nei prodotti finiti. Non si tratta, a questo punto, di sostituire una visione incentrata sulla supremazia del regista con una visione opposta, fondata sulla supremazia altrettanto aprioristicamente attribuita allo sceneggiatore (come provocatoriamente proposto da Kipen 2006). Occorre piuttosto indagare empiricamente i rapporti che si creano tra i soggetti coinvolti – per le condizioni istituzionali e per il carattere e la statura dei singoli individui che partecipano all’ideazione e realizzazione di uno specifico film. La discussione che oppone sostenitori della single authorship e sostenitori della multiple authorship, soprattutto quando coinvolge filosofi e teorici del cinema, tende perlopiù a soffermarsi su prese di posizioni generali a favore dell’una o dell’altra tesi. Per portare la discussione su un piano più empirico, che è quello che interessa la sociologia, ci sembra utile abbozzare una tipologia dei rapporti che si possono creare tra regista e sceneggiatore.

4 Una tipologia dei rapporti tra sceneggiatori e regista

La rilettura dei volumi della collana Dal soggetto al film pubblicata, tra gli anni ‘50 e i ’70, da Cappelli fornisce una base empirica da cui partire per delineare una classificazione dei diversi modi in cui si strutturano i rapporti tra sceneggiatori e regista.4 In prima approssimazione, mi sembra si possano individuare quattro idealtipi di collaborazione (a cui ne aggiungeremo poi un quinto). Baker e Faulkner (1991), che parlano della produzione di un film come di un’arena, delineano una tipologia fondata sui ruoli formali in cui vengono distinte le diverse possibili combinazioni che si hanno dalla sovrapposizione o distinzione delle tre figure chiave del produttore, del regista e dello sceneggiatore. La discussione che segue tralascia, per ragioni di economia argomentativa,5 il ruolo del produttore e si concentra sul caso in cui sceneggiatore/i e regista sono persone distinte, con l’obiettivo di evidenziare i diversi modi in cui si possono configurare i rapporti tra questi diversi soggetti. Al di là dei ruoli formali, la distinzione tra sceneggiatore e regista può infatti dar vita a forme di relazione profondamente diverse, poiché “l’industria cinematografica è, per eccellenza, un sistema volatile, imprevedibile e altamente variabile” (Faulkner e Anderson 1987: 883). Un esame incentrato unicamente sui rapporti formali può pertanto risultare inadeguato.

In alcuni casi lo sceneggiatore sembra descriversi come una sorta di dipendente del regista, riconoscendo il carattere ancillare del suo contributo: dare corpo, struttura alle idee e alle intuizioni del regista, unico vero autore. Gli sceneggiatori di Visconti, come Cecchi d’Amico (1975), sembrano rientrare in questa categoria:

ci raccontammo via via le imprese che ci veniva in mente di tentare. E io imparai presto come assecondare il ‘capo’ nelle sue. Gli ho fatto qualche volta da palo. Altre volte ho azzardato i piani che dovevano portare alla realizzazione di un progetto. Gli interessi erano simili; e il mio ruolo quello di comprendere, intuire, prevenire anche, come lui avrebbe voluto affrontarli. Destino dei complici è di essere catturati prima del capo: così nel caso di questo Gruppo di famiglia in un interno. Chi non ha gradito il film ha attaccato gli sceneggiatori lasciando defilato il maestro.

Le dichiarazioni di Medioli (1973) a proposito di Ludwig e ancora della Cecchi d’Amico a proposito di Senso (Cavallaro 1955) vanno nella stessa direzione ed esprimono la stessa ripartizione dei ruoli tra regista e sceneggiatori: la volontà autoriale è attribuita unicamente al primo, e gli sceneggiatori riducono il proprio contributo a un mero supporto tecnico, posto in un rapporto di subordinazione rispetto al regista.

Se Visconti porta nel cinema quel carattere “dittatoriale” che rivendica anche nel rapporto con gli attori dei suoi lavori teatrali – “siccome il lavoro è il mio, […] lo conduco nella mia direzione, perché io parto da un certo progetto e sono io che ho la responsabilità dello spettacolo. Un attore può anche avere dei dubbi sopra una certa cosa […] ma io lo convinco che quella scena […], così come io l’ho concepita, deve essere così e non cosà” (Visconti 1979: 87) – una sceneggiatrice come Suso Cecchi d’Amico è una partner ideale non solo per il notevole background culturale, ma anche perché appartiene alla schiera di quegli sceneggiatori che fanno dell’eclettismo e del professionismo la propria cifra e che quindi si prestano a mettere la solidità del proprio mestiere al servizio di progetti diversi, riuscendo a comprendere e assecondare le richieste dell’Autore (come nel caso di Visconti) e, quando è necessario, anche le esigenze del genere (Caldiron e Hochkofler 1988).

In altri casi – e questo è il secondo idealtipo – vi è una simbiosi in cui i contributi di uno o dell’altro sono indistinguibili e il rapporto appare privo di una gerarchia. Entrambi sono quindi autori. Rientra in questa fattispecie il rapporto tra Miklos Jancsó e Gyula Hernádi (La pacifista), così come lo descrive il regista (non una “collaborazione” ma un “matrimonio”):

Le idee di Hernádi e le idee mie sono comuni e quindi non posso dire cosa, in un film, ho trovato io, cosa c’è di mio e cosa c’è di suo. Abbiamo sempre scritto le sceneggiature assieme. […] Meglio dire viviamo assieme, dalla mattina alla notte, parlando di tutto, dei problemi della vita e delle nostre idee. Durante la realizzazione di un film, Hernádi non c’è. Il che significa che dal momento in cui iniziano le riprese io resto completamente solo. Quando un film è finito, Gyula lo vede e discutiamo. […] Potremmo fare un film assieme, come i fratelli Taviani che firmano in due, ma a Gyula non interessa molto fare un film (Di Carlo 1971: 22).

Per citare un caso certamente più noto, anche il sodalizio tra Zavattini e De Sica – che spesso si sono descritti “come il caffè e il latte” (Gandin 1956: 240) – può essere ricondotto a questa categoria, anche se non si deve idealizzare questo tipo di rapporti: nel suo epistolario, Zavattini (1988) si lamenta spesso per il mancato riconoscimento delle sue idee da parte del regista. Anche in un connubio straordinario come questo non sono mancati, anche nel periodo di maggior gloria, attriti e incomprensioni.

Alla stesso idealtipo si può ascrivere anche il sodalizio tra Pietro Germi e Alfredo Giannetti, che ha dato vita, fra l’altro, a L’uomo di paglia:

L’incontro con Giannetti gli ridiede forse la gioia di ritrovare se stesso in un altro. […] Stabilirono di comune accordo il tono generale del film. […] Stabilito il punto di partenza, fra una passeggiata e un colloquio all’osteria, in una serie di lunghe discussioni, soggettista e regista si trovarono d’accordo sull’impianto della storia da costruire (Montesanti 1958: 20).

A conferma del carattere per certi versi paritario del rapporto tra i due cineasti, le testimonianze ci dicono che nelle scene in cui il regista recitava, spesso era lo sceneggiatore a prendere il posto del collega dietro la macchina da presa e a dirigere la troupe (Sesti 1997: 209).

Un altro film di Germi (Sedotta e abbandonata) ci porta invece al terzo idealtipo, nel quale i rapporti appaiono più conflittuali e il risultato finale è il prodotto di lotte tra i diversi collaboratori. È bene precisare che i termini “conflitto” e “lotte” non hanno qui alcuna connotazione negativa. Luciano Vincenzoni, Age e Scarpelli rivelano che la sceneggiatura è il prodotto finale di numerose riscritture, “frutto di mesi di liti, controliti… odi e rancori comuni”: questa situazione non ha però valenze distruttive poiché, come gli stessi sceneggiatori aggiungono, “quando qualcuno di noi fa una critica a una sceneggiatura, poi egli stesso contribuisce anche a cercare le possibilità di miglioramento. È sempre un lavoro comune e collettivo, in cui le parti si scambiano più volte, senza ordine. […] Durante le lunghe e spesso disordinate sedute di lavoro gli sceneggiatori cercano il più possibile di evitare il compromesso, e vanno fino in fondo, fino a che uno dei contendenti non è convinto di aver torto o non riesce a convincere gli altri” (Gambetti 1964: 58).

Anche dopo che il film è stato montato e si è svolta la prima proiezione “privatissima”, tra regista e sceneggiatori proseguono gli scontri e i tentativi di introdurre modifiche:

Germi, Vincenzoni, Age, Scarpelli si scambiano ancora una volta le proprie impressioni, crudamente, assai più con critiche che con elogi e entusiasmi. […] Age vorrebbe togliere, nel finale, un po’ di indugio sul baciamano di Peppino; Scarpelli il riferimento di Vincenzo ai ‘piedi che puzzano’ di Peppino; Vincenzoni vorrebbe stringere i balconi finali, conservando i dolcetti della festa… (Gambetti 1964: 127).

Il quarto idealtipo comprende infine quei rapporti in cui le fasi di ripresa e di montaggio vedono degli interventi del regista talmente profondi che il contributo degli sceneggiatori finisce per essere radicalmente trasformato. Il lavoro di Fellini (anche se Pacchioni 2014 ha mostrato quanto nei suoi film l’impronta dei suoi sceneggiatori restasse percepibile) o di Antonioni è, per una parte significativa, riconducibile a questa categoria.

A proposito di Otto e mezzo una lettera della segretaria di edizione Mirella Gabacchio appare drastica: “Non solo Fellini non tiene in nessun conto il copione, ma reinventa i dialoghi e le situazioni lì per lì, scrivendone una traccia su certi foglietti volanti” (Cederna 1963: 62).

Più articolate sono le parole di Bernardino Zapponi (1972), che, in riferimento a Roma, dice che Fellini,

travolge nel suo momento creativo tutto quanto è stato portato dagli altri, e fonde idee proprie e idee altrui in un unico stile che è indubbiamente suo. […] Scrivo la sceneggiatura, ma Federico non la realizza. […] Finita una sceneggiatura, restano nelle cartelle pacchi di fogli di appunti, idee segnate, brani di soggetto, pezzi di dialoghi; tutte possibilità abolite, dalle quali risulta che una sceneggiatura è come un iceberg: ne emerge solo una piccolissima parte. Ogni tanto Federico compie incursioni su questo materiale avanzato, e ne fa strage.

Similmente, è lo stesso regista che, parlando di Amarcord, dice che la sceneggiatura è:

il momento in cui il film si avvicina e si allontana. […] La sceneggiatura bisogna scriverla, ha comunque un ritmo letterario, e il ritmo letterario è diverso, inconfrontabile con quello cinematografico. […] La parola è seducente, ma appanna quello spazio preciso, quella necessità soltanto visiva che un film è. […] Il film viene come tirato per i capelli, e recalcitra. Bisogna in qualche modo blandirlo. Certe volte dilato, in piena malafede la parte letteraria, altre volte lascio in bianco pagine e pagine. Le parole fanno nascere altre immagini, deviano il fine che l’immaginazione cinematografica persegue. […] Ma, portata a termine la sceneggiatura, [il film] entra in una sorta di anticamera della questura, in un limbo. Per me è la fase più gioiosa: quella dove esso si apre a tutte le possibilità, si confronta con ogni incognita. Può diventare qualcosa di completamente diverso da quel che egli stesso si era proposto di essere (Angelucci e Betti 1974: 91).

Anche nei film di Antonioni, il regista fa suo, trasformandolo radicalmente, uno spunto che inizialmente non gli appartiene. Nel volume su Professione: reporter si legge che:

L’idea centrale non è di Antonioni; si tratta di una molla romanzesca… È un luogo narrativo apparentemente estraneo all’autore. […] Dice infatti Antonioni: ‘Non era un soggetto mio. L’ho conquistato girando il film’. È una osservazione esatta. Il congegno romanzesco è smontato prima che scatti. … Se l’Avventura poteva essere considerata un giallo alla rovescia, Reporter è un giallo rifiutato. […] A tutte le domande degli spettatori, Antonioni non risponde solo con le sue scelte tematiche; neppure con i dialoghi all’occorrenza didascalici (la parabola del cieco); ma con la ricerca espressiva, con la sua lingua, con le metafore visive (Reggiani 1975: 12).

Riferendosi a un altro film del regista ferrarese, L’eclisse, Ottiero Ottieri (1962: 33) parla di “legge ferrea dell’alienazione dello sceneggiatore” descrivendo (senza intenti polemici) un processo creativo in cui lo sceneggiatore, dopo aver lottato con gli altri sceneggiatori “per l’invenzione, per la sensibilità soggettiva”, consegna il proprio lavoro al regista e “torna a casa e ricompare per vedere il film montato; curioso, ignaro come uno spettatore”.

Riguardo a questo idealtipo si possono aggiungere due precisazioni. In primo luogo, se i casi di Fellini e Antonioni fanno pensare ad appropriazioni “artistiche” che trasformano plot dalla narrazione tradizionale, o anche “di genere” nel caso di Professione: reporter, in opere dalla forte impronta personale, questo idealtipo si presta ad includere anche relazioni tra regista e sceneggiatore di segno opposto, nelle quali il primo (eventualmente in coalizione col produttore o con l’attore) si “appropria” di un plot dalle ambizioni artistiche e personali per trasformarlo in un’opera dal carattere più commerciale. A proposito del suo legame con Sordi, Rodolfo Sonego, ricorda come, da un certo punto in poi, la tendenza prevaricatrice del regista-attore lo portasse a manipolare, diluire e travisare gli intenti originari dei suoi copioni (Sanguineti 2015). Oppure si può citare come una sceneggiatura di Pasolini (La nebbiosa) sia poi diventata un film di natura più convenzionale come Milano nera (1963) di Gian Rocco e Pino Serpi.

In secondo luogo, Bondanella (1994: 46-49), nel suo importante studio su Fellini, accomuna vari sodalizi tra regista e sceneggiatore (Visconti-Cecchi d’Amico, De Sica-Zavattini, Fellini-Flaiano e Pinelli, Rossellini-Amidei) definendoli come tipici del modo di produzione italiano. Anche se, in generale, questi sodalizi duraturi in altre cinematografie (in particolare, quella che, per Bondanella, è il principale metro di paragone, ossia quella americana) sono effettivamente meno presenti che in Italia, ci sembra che accomunarli in un’unica, indistinta, categoria non permetta di cogliere alcune delle specificità che caratterizzano i diversi idealtipi delineati in queste pagine.

Per completare la tipologia, rendendola più esaustiva, si può infine definire un quinto tipo ideale che non trova riscontri nella collana editoriale considerata e che, effettivamente, è da considerare meno frequente degli altri. È il caso in cui è lo sceneggiatore ad occupare una posizione preminente rispetto al regista, il quale retrocede a mero esecutore tecnico del testo. Tradizionalmente, nelle produzioni televisive, il regista ha, in genere, un ruolo secondario rispetto agli autori dello script e al produttore (Thompson e Burns 1990). Marcello Marchesi e Vittorio Metz a volte hanno conquistato il proverbiale “nome sopra il titolo” e il regista appare come un collaboratore tecnico incaricato di eseguire il loro copione organizzando la troupe e filmando le scene (a volte loro stessi firmano la regia accanto a qualcun altro, a volte non hanno questo ruolo ma i titoli di testa indicano ugualmente che si tratta di un film “di Metz e Marchesi” e non, come in genere accade, del regista). (Vignati 2016b: 237).

Questa tipologia può diventare il punto di partenza per la ricerca empirica sul ruolo dello sceneggiatore nella produzione di un film. Una ricerca sociologica sul contributo degli sceneggiatori dovrebbe per l’appunto esaminare le variabili individuali (legate cioè a singoli film e a singole personalità di cineasti) e le variabili istituzionali-sistemiche che conducono da un tipo ideale all’altro. Tra le prime, il capitale (sociale, culturale e materiale) posseduto dai diversi soggetti coinvolti è una variabile chiave6 che può condurre una relazione verso uno o l’altro tipo. Il “diritto” di Fellini e Antonioni di appropriarsi della sceneggiatura nei modi indicati è una facoltà che i due registi conquistano nel tempo, man mano che la loro fama si consolida e il loro nome diventa un “brand” riconosciuto. In riferimento al contesto americano, vari studi (per esempio, Faulkner e Anderson 1987, Cattani e Ferriani 2008, Cattani, Ferriani e Allison 2014) esaminano, con strategie di ricerca quantitative, i modi in cui i passati successi influenzano i percorsi di carriera.

Uno sceneggiatore da poco entrato nell’ambiente cinematografico avrà, in genere, minori risorse – in termini sia di capitale culturale che di capitale sociale7 – per resistere a possibili manipolazioni e cambiamenti del suo copione. Quali sono le competenze8 che lo sceneggiatore possiede? Le riprese di un film, per esempio, sono un’attività che può essere snervante per un intellettuale abituato prevalentemente a lavorare da solo alla scrivania: se non è interessato a parteciparvi, o non ha le competenze necessarie per comprendere quel che realmente vi accade (come un cambiamento nell’angolo di ripresa può cambiare il senso di una battuta di dialogo, ecc.), lo sceneggiatore si esclude da una fase decisiva del processo creativo, durante la quale possono emergere imprevisti e opportunità (difficoltà tecniche e produttive nel realizzare situazioni previste dalla sceneggiatura, suggerimenti provenienti dall’improvvisazione degli interpreti, situazioni casuali che possono incidere sul risultato finale) che spingono a modificare il copione. Parlando della realizzazione di Le crime du Monsieur Lange, Jean Renoir afferma che l’improvvisazione vi ebbe una parte fondamentale, ma sottolinea come essa venne realizzata con la costante collaborazione dello sceneggiatore Jacques Prévert, sempre presente sul set (Truffaut e Rivette 1957: 35). Anche a Ford piaceva avere Dudley Nichols sul set (Bogdanovich 1990: 100), mentre Rodolfo Sonego si rammarica di non aver seguito la lavorazione di Io e Caterina (Sanguineti 2015: 345-347).

Anche il montaggio è una fase in cui lo sceneggiatore può essere interessato, se ne ha le competenze e se gli viene consentito l’accesso, a intervenire. Alcuni sceneggiatori lo considerano una fase decisiva del processo di scrittura (così si esprimeva, in un’intervista rilasciataci alla Mostra di Venezia nel 2016, l’argentino Andrés Duprat, sceneggiatore de Il cittadino illustre, 2016). L’accesso a questa fase della realizzazione di un film, e la possibilità di darvi un contributo attivo, conferisce allo sceneggiatore un’importante risorsa per affermare il proprio punto di vista, difendendo le proprie idee e intuizioni da possibili “manipolazioni”. In alcuni casi (Zapponi 1972), il regista non ammette l’intervento di nessuno, ma nel cinema italiano, dagli anni ’50 ai ’70, la prevalenza del doppiaggio rispetto alla presa diretta rendeva abbastanza frequente l’intervento in moviola degli sceneggiatori per riscrivere interi brani di dialogo (Pergolari 2004: 151, 377-378; Della Casa e Martinotti 2009: 24-25; Garofalo 2020: 152).9

Al di là dei ruoli indicati dai titoli di testa, che attribuiscono a una persona il ruolo di sceneggiatore e a un’altra quello di regista, dove esattamente finisca il compito dell’uno e dove inizi quello dell’altro, dipenderà dai conflitti e dai negoziati che si svolgono di volta in volta. E in questi giochi ha un ruolo decisivo la fiducia reciproca tra le persone che occupano i diversi ruoli. Come si è visto, in alcuni casi considerati nelle pagine precedenti, la relazione può fondarsi su un vero e proprio rapporto di amicizia (anche se talvolta non esente da conflittualità), talvolta da un solido legame famigliare (i fratelli Carlo ed Enrico Vanzina). “Il cinema è uno di quei mestieri in cui il lavoro sconfina continuamente nella vita privata” (Sorlin 2017: 37) e per questo le modalità di coordinamento tra i diversi collaboratori non si esauriscono nelle definizioni formali dei loro ruoli ma sono fortemente influenzate dalle relazioni informali che esistono tra di loro.

A definire l’equilibrio che di volta in volta si può creare tra i diversi creatori del film, non sono solo variabili individuali (le lotte di potere e i giochi strategici dei singoli partecipanti non avvengono, per tornare a Crozier e Friedberg 1978, nel vuoto, ma in un contesto di regole, di vincoli e di opportunità). Entrano dunque in gioco anche variabili di carattere sistemico, legate al contesto giuridico, economico e culturale nel quale il film viene prodotto. Diverso, da un sistema all’altro, può, ad esempio, essere il ruolo delle associazioni di categoria, assai rilevante nel caso americano (si consideri, ad esempio, lo sciopero della Writers Guild of America nel 2007-2008 – Banks 2010, 2015, Banks e Hesmondhalgh 2016), trascurabile in altri contesti, come quello italiano.

Variabile può anche essere la “legittimazione” di cui godono le diverse categorie. L’influenza culturale della politique des auteurs promossa dai giovani critici francesi negli anni ’50, ha fatto sì che, da allora, il regista sia molto più legittimato nel rapporto con produttori e sceneggiatori a rivendicare un ruolo autoriale. Questa legittimazione si riflette anche nello statuto giuridico delle diverse categorie. Lo statuto giuridico dell’autore ha subito molti cambiamenti a seconda delle epoche e dei paesi (Laberge 1997: 901). Oggi, per esempio, il diritto francese riconosce una pluralità di autori alle opere audiovisive ma il regista è il solo per il quale sia espressamente richiesta l’approvazione per approntare la versione definitiva (Farchy 2007: 2).

In Italia, per Brunetta (1998: 263), già il neorealismo, puntando sul mito della spontaneità e dell’immediatezza, aveva svalutato il ruolo dello sceneggiatore. Le conseguenze di questa svalutazione si avvertiranno più tardi, nella crisi degli anni ’80, quando emerge con evidenza la debolezza delle storie dei film italiani e il loro scollamento col pubblico (Perniola 2005). Anche se negli anni successivi iniziano movimenti che cercano di recuperare l’importanza del lavoro dello sceneggiatore, resta diffusa la constatazione che “la mancanza di investimento sul lavoro di sceneggiatura [sia] uno dei gangli deboli del sistema produttivo italiano: non si lavora abbastanza sul soggetto e sul trattamento, non si scrivono sufficienti stesure della sceneggiatura” (Zagarrio 2006: 246). Nel nostro paese, la debolezza della posizione degli sceneggiatori nei confronti delle controparti deriva anche dal fatto che “gli sceneggiatori sono tuttora una categoria trascurata dai finanziamenti pubblici”: è il regista “la categoria professionale tradizionalmente associata ai fondi ministeriali per il cinema e all’articolo 28” (Maule 2014: 68-69):

mentre i programmi europei di supporto all’industria cinematografica sono sempre più indirizzati al momento dello sviluppo e programmazione della sceneggiatura, provando a colmare quel gap importante che esiste tra cinema europeo e hollywoodiano proprio sui tempi dedicati al development del soggetto prima di cominciare a girare il film, il cinema italiano con il suo desiderio autoriale, sembra invece persistere in un modo produttivo focalizzato sul ruolo del regista nel modificare l’impianto narrativo sul set più che fare affidamento su una forte sceneggiatura (Baschiera 2014: 67).

Diverse trasformazioni in atto nel vasto ambito dell’audiovisivo – la crescente importanza della serialità televisiva, tradizionalmente impostata su un rapporto tra scrittori e registi diverso da quello del cinema,10 il rilievo delle produzioni web (Ellingsen e Taylor 2019), il mutamento nelle modalità di fruizione indotte dai media digitali, con la possibilità di “alleanze” tra pubblico e autori (Navar-Gill 2018), l’emergere di nuove possibilità di raccolta di finanziamenti come il crowdfunding (Gay 2014) – creano però nuove opportunità, modificano consolidate gerarchie di potere e possono avere ripercussioni anche sul più “tradizionale” mondo del cinema.

In virtù di tutti questi fattori (su cui non esiste, in riferimento al contesto italiano, una consolidata tradizione di ricerca sociologica), “come in tutte le attività relative all’audiovisivo, le dinamiche tra registi e sceneggiatori, nonché tra questi ultimi e produttori, si collocano in uno spettro quasi infinito di possibilità” (Chiesa 2014: 54). La tipologia delineata nelle pagine precedenti intende essere una mappa per orientarsi in queste dinamiche e per stimolare una ricerca intorno alle variabili che favoriscono l’emergere dell’uno o dell’altro tipo, attraverso la realizzazione di interviste in profondità e la raccolta di storie di vita.

5 Conclusioni

Anni fa, nella sua Sociologia del cinema, Jarvie (1977), si chiedeva che importanza potesse avere l’attribuzione della paternità del film al solo regista o anche a un gruppo di sceneggiatori: alla possibile obiezione secondo cui il problema del chi sia l’autore è irrilevante poiché il film deve essere valutato esclusivamente in relazione ai suoi caratteri intrinseci, Jarvie, che nel cinema aveva interessi anche di tipo critico-valutativo, ribatteva che non si può interpretare, né comprendere, un’opera d’arte senza certe informazioni ambientali: il lavoro di chi scrive di cinema e dello spettatore colto consiste nel cercare di individuare, in base agli elementi intrinseci ed estrinseci, quanto può essere accaduto durante la lavorazione dei film e distribuire elogi e biasimi il più conformemente possibile a questa conoscenza.

Per giustificare questo interesse si può dire che rilevare il contributo dato dagli sceneggiatori al film accresce la capacità dello spettatore di guardare con consapevolezza il film stesso: il riconoscimento dell’importanza di tale contributo può consentire di vedere nel film qualcosa che altrimenti passerebbe inosservato. Un esempio. Se guardando The shape of water di Guillermo Del Toro si pensa che co-autrice della sceneggiatura è Vanessa Taylor, lo si può mettere in relazione con un film di tutt’altro genere scritto dalla Taylor, Il matrimonio che vorrei (Hope springs, 2012) di David Frankel, e coglierne interessanti legami che altrimenti sarebbero sfuggiti. Le uova, col loro significato simbolico, sono un elemento ricorrente in The shape of water. Ma anche in Hope springs, Meryl Streep cucinava ogni giorno un uovo al bacon per il marito: la ripetizione di questa azione indicava la routine in cui era finito il ménage matrimoniale. I significati simbolici che l’uovo assume in The shape of water – dove sono un messaggio di “disponibilità” animale alla riproduzione o all’atto sessuale – portano a ripensare all’uovo di Meryl Streep, non solo come sintomo della routine matrimoniale ma anche come inascoltato segnale “animale” lanciato al marito. Allo stesso modo, in un contesto di cinema fantastico, ossia di un cinema incentrato per definizione su eventi straordinari, The shape of water enfatizza, come il film di Frankel, la dimensione della routine, della ripetizione quotidiana. E in questa ripetizione, assume un rilievo e una concretezza inaspettata il sesso (ogni mattina, nella vasca da bagno, la protagonista si masturba). Riflettendo sui punti di contatto tra questi due film apparentemente lontani (che solo focalizzandoci sulla sceneggiatrice abbiamo messo in relazione) emerge come il carattere peculiare del film di Del Toro, il suo fascino, sia nel fatto che il meraviglioso e lo straordinario siano inestricabilmente fusi col quotidiano, il banale, il routinario (dimensioni che la Taylor aveva esplorato nel precedente film): proprio attraverso questo originale amalgama il film riesce a porre al centro il tema del cambiamento e della coesistenza, all’interno di ogni individuo, del desiderio e della paura di cambiare. Soffermandosi sui punti di contatto tra questi due film , cogliendo i legami tra l’invenzione fiabesca di The shape of water e la raffigurazione di un ordinario ménage di coppia, nei toni smorzati di una commedia incentrata sulla routine quotidiana, diventa più facile leggere questa fiaba non come una forma di evasione ma come un racconto che – per usare le parole di Calasso (1991: 497) sulle favole – ci pone di fronte al “terrore del mondo, il terrore di fronte alla sua muta, ingannevole, sopraffacente enigmaticità. Terrore di fronte a questo luogo della metamorfosi perenne, dell’epifania, che include innanzitutto la nostra mente, dove assistiamo senza tregua alla ridda dei simulacri” (un terrore che, a questo punto, possiamo cogliere anche tra le righe della vicenda del matrimonio in crisi di Meryl Streep e Tommy Lee Jones).

Il discorso della critica autoriale, con la sua enfasi puntata esclusivamente sul regista, si rivela, nella maggioranza dei casi, inadeguata e parziale, oppure tende a trasformarsi in un discorso mistico e non empirico. Il suo errore tipico consiste nel dare per scontato che le scelte decisive siano da attribuire al regista, invece di porsi interrogativi intorno al modo in cui i diversi individui che hanno partecipato al film possono avervi lasciato un segno. Qui ci siamo soffermati su un singolo rapporto, quello tra il regista – usuale detentore della palma di autore unico – e lo sceneggiatore.

Diversi esempi tratti da diversi contesti hanno evidenziato come lo sceneggiatore possa lasciare il proprio segno (certe predilezioni tematiche, linguistiche o strutturali) sui film a cui partecipa: è questo un riconoscimento per nulla scontato, che storici e critici del cinema trascurano in larga misura. A partire da questo riconoscimento si tratta di comprendere in che modo si sviluppano i rapporti tra lo sceneggiatore, il regista e le altre figure che contribuiscono alla realizzazione del film. Su questo la sociologia politica, studiando le relazioni di potere intese come rapporti di scambio (Infantino 2013), può fornire un utile contributo alla descrizione empirica dei modi in cui un’organizzazione temporanea produce un film, favorendo una comprensione dei processi di “multiple authorship” che vada al di là delle prese di posizioni molto generali di filosofi e teorici del cinema.

L’idea che la creazione artistica sia il frutto di rapporti umani nei quali si mescolano in dosi variabili, a seconda del contesto e delle personalità e delle risorse degli individui coinvolti, collaborazione e conflitto e che anche nella realizzazione di un prodotto artistico entra in gioco la dimensione politica può essere negata da due opposte ideologie. Da un lato, l’ideologia individualista del “genio solitario” – che ha svolto un ruolo cruciale nella definizione moderna della figura dell’“autore” – sostenuta da chi, consapevolmente o no, postula la primazia di una figura su tutte le altre (normalmente il regista) e cataloga i film il cui regista non si eleva da una condizione di anonimato a cui lo relega il contesto produttivo come opere “senza autore” (Livingston 1997).

Dal lato opposto, l’ideologia comunitaria che pervade ambiti artistici nei quali la produzione collettiva è un dato costitutivo (come il cinema o la popular music) e che porta a rappresentare la collaborazione artistica come qualcosa che conduce al superamento delle singole individualità per dar vita a un’inscindibile comunanza d’intenti. Fino a quando funziona, è la rappresentazione che spesso adotta, respingendo la possibilità di distinzioni analitiche sui singoli contributi, chi è coinvolto nel processo creativo: il “caffelatte” di De Sica e Zavattini, l’“amalgama indivisibile” di Piccolo (2015). Questo modo di descrivere la propria attività da parte degli sceneggiatori tradisce una certa insofferenza nei confronti della curiosità dello studioso che ricerca i contributi individuali, come se questi tentativi analitici fossero un’indebita intrusione o uno svilimento del loro lavoro: quando Kezich chiedeva informazioni circa il suo contributo ai film di Fellini, Flaiano (1995) rispondeva con fastidio che un film non è un melone che possa essere tagliato a fette stabilendo con precisione chi ha fatto cosa.

Eppure, evidenziare il contributo dei diversi partecipanti a un lavoro artistico collettivo è il primo passo per riconoscere come la creatività sia da considerare un processo sociale e per cogliere in questo processo conflitti di potere, accordi più o meno stabili, proficui aiuti e inevitabili compromessi e quindi per recuperare, anche in questo ambito, la dimensione politica di qualsiasi attività collettiva.

Bibliografia

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  1. Nei dibattiti sulla authorship molto spesso la posizione di chi a tutti i costi cerca di identificare uno, e un solo, autore coincide col bisogno di riconoscere l’artisticità del film. Si tende infatti a pensare che l’artisticità sarebbe negata qualora si riconosca il contributo decisivo di una pluralità di individui (questo riconoscimento è spesso associato all’idea di compromesso – Kerrigan e Batty 2016, Bloore 2012).↩︎

  2. Ma sui lavoratori “below-the-line” e la complessità delle connessioni con la questione dell’autorialità si veda l’interessante contributo di Caldwell (2013).↩︎

  3. Caso a se stante è quello dei musicisti, perché legalmente riconosciuti come autori del loro contributo, che può anche avere una vita autonoma rispetto al film (la colonna sonora può essere incisa su disco, trasmessa per radio o eseguita in concerto) e generare diritti d’autore anche indipendentemente dal film.↩︎

  4. La collana, molto apprezzata dagli appassionati e dagli studiosi di cinema, comprende 58 volumi nei quali, attraverso interviste agli autori del film (o loro testi) e resoconti di osservatori esterni, viene dettagliatamente descritto il processo di realizzazione di altrettanti film.↩︎

  5. Un’altra semplificazione della nostra trattazione è che tralascia le forme di conflitto e di coordinamento all’interno del team di sceneggiatori. Conflitti e gerarchie possono infatti esistere non solo tra regista e sceneggiatore ma, poiché quest’ultimo ruolo è frequentemente ricoperto da più individui (specialmente nel cinema italiano), anche tra i diversi sceneggiatori.↩︎

  6. Anche il genere può essere una variabile che influisce su questi rapporti (Bielby e Bielby 1996, Pergolari 2004: 147).↩︎

  7. Minore è ad esempio la sua reputazione, una risorsa chiave (Bielby e Bielby 1999, Blair 2001).↩︎

  8. Nel campo della creazione artistica e dei prodotti dell’industria culturale, la nozione di competenza non è facilmente misurabile in maniera univoca (Hirsch 1972) ed è quindi giudicata post hoc, in base al successo dei prodotti creati (DiMaggio 1977).↩︎

  9. Questa osservazione sul legame tra ricorso al doppiaggio e intervento degli sceneggiatori in moviola suggerisce che il contesto tecnologico costituisce un ambiente che crea vincoli e opportunità per i diversi soggetti impegnati nella realizzazione di un film. Per fare un altro esempio, è noto come la diffusione di strumenti di ripresa leggeri abbia contribuito in maniera decisiva a favorire nei cineasti della nouvelle vague un approccio nel quale l’improvvisazione assumeva un’importanza inedita: ne risultava indebolito il ruolo degli sceneggiatori e la rilevanza dei loro supporti “letterari” al film.↩︎

  10. L’autorialità televisiva, soprattutto delle serie contemporanee, apre tutta una serie di questioni che qui non è possibile affrontare (rimandiamo a Mittell, 2017, in particolare il capitolo 3, per una panoramica), non senza aver notato che – pur essendo il processo produttivo delle serie tv molto più collettivo e decentrato rispetto alla produzione cinematografica – le modalità di ricezione delle serie da parte di molti spettatori, e anche critici, tendono ad attribuire intenzionalità e capacità autoriale alla sola figura dello showrunner: come accade col cinema e col regista, immaginarsi un’unica “entità autoriale” consente una lettura molto più semplice, e quindi rassicurante, del processo produttivo da cui hanno origine i prodotti artistici (Mittell 2017, 172, 175-176, 203).↩︎