1 La cultura nazionale nell’epoca della sua riproducibilità in brand
Prassi vuole che il tema qui conseguito – “il ricorso delle cose umane nel risorgere che fanno le nazioni” (Vico 2001: 933) – sia anticipato da alcuni assiomi. Il primo: quel processo strutturale che va sotto il nome di “globalizzazione” non consiste in una non-mediata omogeneità del mercato, ostile all’idea di nazione1 (o di “romanzo italiano”), bensì in un processo che produce al contempo omo- ed eterogeneità specifiche.2 A conferma, si registri come, al volgere del millennio, mercati locali, regionali e nazionali, divenuti competitori l’un l’altro per la stessa quota globale di consumatori, si siano trovati costretti a investire nella produzione di una propria differenza specifica (Aronczyk 2013: 2).
È nata così la figura professionale del Brand Manager for Nations. Suo compito: “to construct a national origination based upon the geographical imaginary of [‘Italian-ness’] to create and evoke meaning and value in the international [market]” (Pike 2015: 19). Tra i più quotati, la Wolff Olins Brand Consultancy, che curò l’immagine di Polonia e Portogallo quali paesi pronti ad accedere, rispettivamente, alla UE e alla zona Euro; e Simon Anholt, ideatore del Good Country Index (Italia correntemente al diciannovesimo posto). Quale valore – o capitale – simbolico, si chiede quest’ultimo facendo il verso a Pierre Bourdieu, si trova nel “made in Germany” che non si trovi invece nel “made in China”? E quale, per l’appunto, il valore del “made in Italy”?
Quest’ultimo, leggiamo nel suo libro ormai di testo per l’aspirante manager, avrebbe un vero e proprio “magnetic appeal”:
the glamour of that nation brand also reflects back on us for choosing it. It makes you feel stylish when you become the owner of something by Alessi or Gucci, and you get a similar feeling when you go to the Amalfi coast for your holiday, cook penne all’arrabbiata, take Italian lessons, listen to Pavarotti or name your children Lucia and Stefano (Anholt 2007: 9).
Donde la forza misteriosa del brand Italia – “una cosa intricatissima, ricca di sfumature metafisiche e di arguzie teologiche” (Marx 1970: 76)? Risponde Anholt: dalla possibilità di trarre profitto dai “past cultural achievements” della nazione, e più precisamente dai suoi nomi – “Michelangelo, Dante, Leonardo, Galileo, Vivaldi and Verdi… as well as the ‘sub-brands’ of Venice, Florence and Rome” (Anholt 2007: 98). L’indeterminatezza referenziale del nome proprio – “Michelangelo” denota tanto “l’autore di settantotto sonetti” quanto “una figura importante della pittura” (Russell 1905) – è proprio quello che rende un nome, come la faccia del Che, infinitamente riproducibile in una varietà di contesti: trasformabile appunto in brand (Tschirhart 2008). Ma generalità a parte, la specifica lista di nomi elencata da Anholt – vero e proprio name-dropping3 – dà alla selezione un chiaro “effect contractuel” (Lejeune 1975: 45): quello di garantire al consumatore del brand Italia un prodotto culturale di alta, canonizzata, e globalmente riconosciuta qualità. Come, appunto, le penne all’arrabbiata o la gita sulla costiera amalfitana.
Da questa “moltiplicazione postuma dei profitti” legata al nome del compianto illustre – il quale diviene “brand di successo, intorno al quale si estende una fitta rete di interessi economici” nazionali (Meneghelli 2014: 15) – è possibile porre un secondo assioma: nell’epoca del nation branding, quando anche i presidenti di stato sono “marchi umani” (Linnett 2003), il brand può essere ragionevolmente pensato come una nuova forma di proprietà, supplementare a quella fondiaria, utilizzabile per generare rendita monopolistica.4 Per anticipare un punto su cui tornare: a generare profitto non è solo la produzione, ma anche la rendita “parassitaria” (Gramsci 1975: 1343) generata dal brand – e centrale per l’Italia, Anholt dixit, rimane il brand cultura.
Cosa succede allora, dati cause e contesto, a quello specifico prodotto culturale italiano che è il romanzo? Come ultimo assioma, si premetta infine che la relazione tra romanzo (fra tanti prodotti culturali) e nation branding è di particolare implicazione. I nodi della relazione sono stati sufficientemente insistiti per doverli qui riprendere: in un fortunato libro del 1983 sul ruolo del romanzo nella “logoization” della nazione come Imagined Community (Anderson 2006: 176); in un controverso saggio sul romanzo come “national allegory” (Jameson 1986: 69); in un volume su Nation and Narration (Bhabha 1990); e in un altro, palindromico, su Narrating the Nation. Da quest’ultimo, parole sufficienti a un sommario: il romanzo, impostosi come genere letterario dominante agli inizi del XIX secolo in parallelo al crescente interesse per lo stato-nazione, “was a sort of imaginative gymnasium that created the mental fitness for people to take on board an abstract community called the nation” (Rigney 2008: 91).
2 Romanzo e brand Italy
Siccome agli assiomi avrebbero da seguire “alcune poche, ragionevoli e discrete domande” (Vico 2001: 494), poniamone una: attraverso quali concreti meccanismi il romanzo italiano concentrò i suoi sforzi nella produzione di un senso, un valore, e un’immagine della comunità astratta detta “Italia”? Il problema è che il romanzo è, notoriamente, un prodotto di per sé indisciplinato: uno pseudo-genere formatosi “in opposizione all’ingenuità normativa” (Lukács 2004: 63) delle regole classiche; “forma aperta” (Zaccaria 1984: 7) senza “unica sua forma giusta, necessaria e attuale” (Bachtin 1975: 451), esso può prendere qualunque forma per dire tutto e il contrario di tutto. Come, allora, questo non-genere “mutevole e proteiforme” (Mazzoni 2011: 30) sarebbe confluito a palestra per la formazione nientemeno che di un “canone risorgimentale”? (Banti 2000: 3-55)
La risposta va cercata nel ruolo storico assunto dagli editori nazionali – è cioè nelle precise scelte di pubblicare, a scapito di altri, romanzi di impostazione nazional-patriottica (Le ultime lettere di Jacopo Ortis, editore Marsigli), di storia patria (Ettore Fieramosca, editore Pomba), o martirologi della fede nazionale (Le mie prigioni, editore Salani). Insomma, se il romanzo è caratterizzato da un costante “moto centrifugo” (Mazzoni 2011: 124), era la centralizzazione dell’industria editoriale a garantirne una funzione per così dire centripeta, e cioè la capacità di evocare un’immagine, più o meno precisa, della nazione. Che l’editoria italiana volesse partecipare a tale impresa non sorprende: se prima dell’Unità il compimento della rivoluzione politica nazionale era indispensabile per garantire una distribuzione libera da impedimenti doganali, anche nei decenni post-unitari la pedagogia del “fare gli italiani” continuava a rappresentare opportunità di espansione commerciale. Si pensi, al di là dell’affare delle antologie e dei testi scolastici, cui partecipavano soprattutto i torinesi Loescher, Paravia, e Pomba, alla nuova possibilità per editori quali i milanesi Treves di vendere i più di quattrocento titoli della “Biblioteca amena”, Cuore in testa, dalle Alpi ai Peloritani.
Al brand Italia, insomma, erano legate le fortune dell’editoria nazionale, che quindi si operava a divenire l’organizzazione, notava Gramsci, per la “diffusione da un centro omogeneo di un modo di pensare e di operare omogeneo” (Gramsci 1975: 33). Per quanto dispersa in plurime realtà tipografiche, l’editoria Italiana centralizzava su di sé un compito ben preciso, così espresso dal fiorentino Sansoni: dare un’identità “culturale e spirituale della città, collegandola alle altre regioni italiane in conformità agli ideali del Risorgimento” (citato in Bompiani 1988: 23). E al centro di questo programma centralizzatore stava proprio il romanzo – prodotto letterario capace come nessun altro di creare per sé un nuovo pubblico di cittadini-consumatori formato, oltre che dai lettori tradizionali, anche:
dai ceti popolari in via di alfabetizzazione, dai fanciulli in età scolare, dalle donne: queste ultime, fino allora lettrici prevalentemente di testi devoti, divennero le grandi acquirenti dei romanzi, il genere più diffuso della produzione narrativa ottocentesca (Irace 2012: 202-203).
Dopo gli editori risorgimentali, altri continuarono a operare politiche editoriali per produrre e riprodurre un brand Italia spesso conteso: quello brescianesco e “di sagrestia” (Gramsci 1975: 18) delle stamperie della Civiltà Cattolica; quello degli Indifferenti della Mondadori in pieno Ventennio; l’Italia della “nuova cultura” vittoriniana dei “Gettoni” Einaudi nel dopoguerra; e poi l’Italia gattopardesca della “rivoluzione mancata” di Feltrinelli fino a quella, sciasciana, di Sellerio. Ma possono gli editori nazionali, ancora oggi, svolgere questa funzione centralizzante per produrre immagini, anche se conflittuali, della nazione?
3 The age of Amazon
Should Amazon.com now be considered the driving force of [Italian] literary history? (McGurl 2016: 447).
A giudicare dall’immagine che di sé dà l’editoria italiana, sembrerebbe che poco o nulla sia cambiato. Chi nel 2019 avesse avuto occasione di frequentare il Salone del libro di Torino avrebbe osservato una disposizione spaziale così messa in sommario da Benedetto Vecchi su il manifesto del 7 maggio: “Gli edifici centrali del Lingotto […] saldamente presidiati dai grandi editori; gli altri […] relegati in ‘periferia’”.
È questa, riconoscibile, la geografia del capitale così come ci hanno abituati a pensarla il Modern World-System di Immanuel Wallerstein o la Geometria dell’imperialismo di Giovanni Arrighi; ed è questa, mutatis mutandis, la stessa geografia dell’industria culturale ricostruita da Pascale Casanova nella République mondiale des Lettres, con al centro la Parigi dei grandi editori e premi letterari; o da Franco Moretti nell’Atlante del romanzo europeo, che cita Kenneth Clark:
La storia dell’arte europea è stata in larga misura la storia di una serie di centri, da ognuno dei quali si è irradiato uno stile che era metropolitano in origine, e diveniva via via più provinciale man mano che si avvicinava alla periferia (1997: 168).
Da questa tensione tra periferia e centro, del resto, e di contro l’equivalenza degli spazi tipica del racconto allegorico o picaresco, si era venuta strutturando la forma-romanzo stessa; Angoulême-Parigi delle Illusions perdues; Como-Milano nei Promessi sposi; Castel di Fratta-Venezia nelle Confessioni di un italiano; fino alla Grosseto-Milano della Vita agra. Ma che questa distribuzione spaziale rifletta la natura dei nuovi oligopoli dell’industria editoriale non sembrerebbe però il caso – se non come scongiuro della schumpeteriana distruzione dell’intero apparato per la produzione, distribuzione, e consumo del romanzo di cui Amazon è antonomasia: distruzione di un modo di produzione, e cioè delle relazioni sociali – “l’insieme di dinamiche culturali, sociali, editoriali” (Pennacchio 2018: 48) – che avevano dato precisa concretezza storica e morfologia specifica alla forma-romanzo.
Cominciamo ab origine, dalla produzione del romanzo, con un dato: “In January 2015, 40% of revenue from e-books on Amazon was received by self-published authors” (Forum d’Avignon 2015: 25). Dialettico indice di una democratizzazione della produzione letteraria e al contempo di una trasformazione della società intera in mercato del lavoro, il self-publishing consente a una massa ingente di soggetti di divenire autori – di vezzo, a costi modici, su piattaforme come Lulu, JePublie, o Bubok, e indipendentemente dalla figura mediatrice dell’editore che seleziona.5 Queste piattaforme sono a loro volta coadiuvate da siti quali BookSurge e CreateSpace (acquisiti da Amazon) che offrono, sempre dietro modico pagamento, servizi di stampa. Il romanzo è riproducibile a costi irrisori per l’autore, e tendenti allo zero per la piattaforma in uso. La sovrapproduzione è per effetto la norma, l’accelerazione del turnover vertiginosa: le leggi di domanda e offerta non spiegano molto. Pochi romanzi vendono più che qualche copia a zia e ad amici stretti – eppure nel loro insieme rappresentano circa il 40% dell’intero fatturato eBook, che include, si noti, anche i best-seller di Stephen King e il “cofanetto” Kindle Edition delle Neapolitan Novels di Elena Ferrante.
A chi questa percentuale? Nel caso della Kindle Digital Publishing, sussidiaria di Amazon e colosso del self-publishing, il prezzo di copertina è stabilito dall’autore, che riceverà, sulla vendita, da un minimo del 35% a un massimo del 70% in royalties. Il self-publishing costituisce così una specie di esercito autoriale di riserva – disoccupato dell’industria editoriale online, ma già produttore di un numero potenzialmente illimitato di titoli e unità manufatte; e possibilmente il futuro best-seller, come il caso delle serie Twilight e Fifty Shades dimostra. Perché ciò accada, strumentale è monitorare gli andamenti del mercato librario (BookScan, liste dei titoli più venduti offerte dal The New York Times, e altre demoscopiche) e istituire piattaforme per l’interazione tra autori e aspiranti tali. FanFiction, aperta nel 1998 (e fondamentale nel caso di E. L. James), offre all’aspirante scrittore la possibilità di ricevere feedback dai suoi stessi potenziali lettori, che nella maggioranza dei casi sono autori essi stessi. In questo intrecciarsi dei ruoli di autore, critico e lettore negli stessi soggetti, ognuno ha il compito “in some sense to create the commodity she or he is consuming” (Illouz 2014: Kindle edition). Detto altrimenti, rendendo il momento della produzione indistinguibile da quello del consumo, la piattaforma digitale genera valore dall’attenzione dell’utente stesso – nel momento in cui questo suggerisce lo snodo narrativo, o digita sull’ultima informativa pubblicitaria (Fuchs 2012). In questo senso, come si diceva, il valore – anche quello di un romanzo – va vieppiù generandosi attraverso meccanismi di rendita monopolistica. Se il capitale industriale crea profitto gestendo processo produttivo e forme di cooperazione (scrittore-editore, editore-distributore, critico-lettore), la rendita monopolistica del cosiddetto “capitalismo delle piattaforme” produce anche attraverso forme di cooperazione “immediata” – certo, mediate comunque dalla piattaforma dietro la quale sta un’industria ben taylorizzata.6
Ma se tali strategie distributive funzionano nel caso della cosiddetta “letteratura di genere”, sembrano invece poco appropriate sia per il brand author, sia nel caso dell’autore di un “romanzo letterario”.7 Per occuparsi di entrambi, Amazon stessa è divenuta un editore con funzioni più o meno tradizionali attraverso ben sedici divisioni, di cui Little A è quella rivolta al romanzo di qualità – vendite modiche a breve tempo, protratte però sul lungo periodo (Sinykin 2017: 471). Ma una chiara tendenza è percepibile: l’autore qualitativamente riconoscibile – “tutt’altro che morto […] e piuttosto trasformatosi in parte della catena produttiva” (Benvenuti 2018: Kindle edition) – non si affida né al self-publishing e suoi derivati, né agli editori tradizionali per diventare esso stesso brand:
Authors can become brands in their own right – most well-known writers, like Stephen King, John Grisham, James Patterson, Patricia Cornwell, etc., are brand-name authors in this sense. They have acquired large stocks of symbolic capital and are able to use this to their advantage. In the early stages of their writing career, a publishing firm may have invested in the building of their brand, but as they become better known and develop a fan base of regular readers, the author’s brand separates off from the publisher’s brand and becomes less and less dependent on it. This puts them or their agents in an increasingly strong position when it comes to negotiating contractual terms with publishers and tends to ensure that their new books, regardless of who publishes them, are well positioned in the circuits of distribution and reception (Thompson 2012: 9).
Nata dalla disoccupazione editoriale degli anni Novanta a seguito della formazione dei grandi conglomerati editoriali, come anche dalla coscienza che non l’editore, ma “the writer is the star, much like the movie business”, quella del “super-agente letterario” è la figura sociale, diafana e quasi impercettibile, che fa e regola la fortuna del brand author, presumibile genio romantico libero dai lacci di FanFiction come da quelli dell’industria editoriale:
Agents […] thought of themselves less as intermediaries, mediating between author and publisher, and more as dedicated advocates of their client’s interests. They […] displaced the centrality of the publisher by asserting control over the rights of their clients’ work and deciding which rights to allocate to which publisher and on what terms. In their eyes, the publisher was not the central player in the field but simply a means to get what they wanted to achieve on their clients’ behalf, which was to get their work into the marketplace as effectively and successfully as possible. The traditional relations of power between author and publisher were gradually overturned (Thompson 2012: 65).
Antonomasia della figura del literary agent è Andrew Wylie – il cui operato è noto a chi abbia mai aperto un libro di Karl Ove Knausgård o di Ismail Kadare; classici della global literature come Saul Bellow, Jorge Luis Borges, Paul Bowles, Norman Mailer, Vladimir Nabokov, Chinua Achebe, John Updike, Roberto Bolaño, Philip Roth, W. G. Sebald, Oliver Sacks, Milan Kundera, e (lunga) via dicendo; o perfino letto le lyrics di David Byrne ed Elton John. La lista di autori e patrimoni letterari rappresentati da Wylie comprende più di 500 nomi: quelli esposti a vista nelle librerie di New York o di Bologna, di Buenos Aires o di Caltanissetta; quelli inclusi in “Les Cents romans du Monde” scelti da le Monde e Fnac; e quelli nei Top 100 di Amazon. Lasciando agli editori nazionali e ad Amazon il compito e i costi di produzione e distribuzione, The Wylie Agency funziona essa stessa come brand – marchio a garanzia di un successo globale. Born Translated (Walkowitz 2015), i romanzi rappresentati da Wylie, piazzati simultaneamente alla Einaudi e alla Random House, alla Gallimard e al Grupo Santillana, divengono così la colonna portante della world literature di qualità; candidati, in virtù di brand author, brand publisher e brand translator – tutti coordinati dal literary agent – ai premi letterari più ambiti: dallo Strega al Nobel.
Un’autonomia relativa dello “champ littéraire transnational” rispetto al mercato (Casanova 1999: 88), autonomia garantita dai centri editoriali e dalle giurie di premi letterari, andrebbe allora ripensata. Ma qui, concerne un altro aspetto: Hachette ed e/o si ribellano; nel frattempo, Amazon domina il mercato globale del romanzo cosiddetto di consumo, e il literary agent controlla quello transnazionale del romanzo “di qualità”. Gli editori nazionali si muovono in spazi di manovra sempre più ristretti. Una qualunque forma di centralizzazione strategica da parte loro è difficile da immaginare. Il che non vuol dire, d’altra parte, che il romanzo italiano non continui a essere prodotto e riproduzione di un brand Italia.
4 “Customers who viewed this item also viewed”: conclusioni inattuali
L’immissione di un numero senza precedenti di romanzi nel mercato editoriale dovuto all’esplosione del self-publishing, a cui si aggiunge la quantità di romanzi prodotti per via tradizionale, richiede nuovi modelli di distribuzione. Il problema è quello di connotare un numero tendenzialmente illimitato di romanzi per ricombinarli poi secondo algoritmi basati sulle preferenze specifiche del consumatore – algoritmi che, da quantità incontrollabili, producano possibilità discrete di acquisto e di lettura. È questo, ad esempio, il compito dell’algoritmo P13N della Amazon, modello di “collaborative filtering”. La chiave è appunto il suo essere “collaborative” – e cioè dipendere dall’input (lavoro vivo), intenzionale o meno, dell’utente (Linden et al. 2003: 79): recensioni, altri acquisti, pattern di navigazione sul web rintracciabili dai cookie, velocità di lettura e sottolineature sul Kindle, fino alle preferenze sessuali o alle inclinazioni partitiche quando note all’algoritmo. Il consumatore, come citato già in precedenza produttore della “commodity she or he is consuming”, diventa quindi, al tempo stesso, parte anche della catena distributiva.
Per la raccolta di dati utili alla specifica distribuzione del romanzo, un ruolo fondamentale è svolto, più che dai circoli di scrittura in stile FanFiction, da quelli di lettura – utili a connettere utenti-consumatori in segmenti di mercato verso cui indirizzare un tipo mirato di romanzo piuttosto che un altro. Nel 2013, Amazon acquisisce Goodreads, oggi il sito per la lettura più grande al mondo, con novanta milioni di iscritti secondo dati del 2019, e un numero conseguente di recensioni e consigli di lettura.8 La sua missione: “to help people find and share books they love” all’interno di una produzione sterminata. Goodreads aiuta il lettore a trovare il romanzo preferito attraverso il suo “Author Program”, in cui l’autore, a imitazione di FanFiction, può raggiungere direttamente lettori interessati a un certo genere o argomento, e produrre in base alle richieste; e attraverso la parcellizzazione dell’immensa produzione libraria (publishing e self-publishing) in unità di interesse discrete.
Sono quelle che Goodreads chiama genres. Due di questi rilevanti per capire quale tipo di brand sia associato al romanzo italiano. Il primo “genere”, Italian Literature, comprende ai primi cinquanta posti (Popular Italian Literature Books, 29 aprile 2020) una lista che quasi coincide con quella dei romanzieri italiani (o loro eredi) rappresentati da Andrew Wylie: Italo Calvino, Antonio Tabucchi, Alessandro Baricco, Giorgio Bassani, e Paolo Giordano (Roberto Calasso, Claudio Magris e Roberto Saviano, anche loro clienti Wylie, non rientrano in questa data tra i cinquanta titoli). È questa, Baricco incluso, una lista di quality world literature – quella che il brand Wylie si occupa appunto di garantire al consumatore, ma che, a parte l’associazione rilevata da Anholt tra brand Italia e cultura alta o sofisticata, è forse più romanzo globale che non romanzo italiano. Accanto ai già citati troviamo, fra i primi cinquanta romanzieri, autori italiani consacrati comunque da un brand che ne garantisca alta qualità: per molti, il brand dei vari premi letterari segnalati in pagina; poi il brand del “classico” (Primo Levi, Alberto Moravia, Cesare Pavese, Giovanni Verga, Alessandro Manzoni, Carlo Collodi, Luigi Pirandello, Dino Buzzati, Italo Svevo); il brand del traduttore di fama con accesso alle maggiori testate letterarie quali il Times Literary Supplement o la New York Review of Books (Ann Goldstein per Elena Ferrante; William Weaver per Umberto Eco e Carlo Emilio Gadda; Archibald Colquhoun per Leonardo Sciascia e Tomasi di Lampedusa); e il brand, diverso, di Niccolò Ammaniti, Io non ho paura.
Presentato come un thriller “set in southern Italy”, il romanzo di Ammaniti pare partecipare del successo del brand Gomorra (Benvenuti 2018), cui si potrebbe forse aggiungere un brand Ferrante – ovvero il brand di un’Italia esotica, assolata e provinciale, “nella quale paesaggi mozzafiato fanno da scenario alle azioni di criminali talvolta anche efferate”.9 Il “made in Southern Italy”, insomma (la cui ricerca su Goodreads, incidentalmente, restituisce titoli quali Murder in Matera di una certa Helene Stapinski), che si coniuga assai bene, tra l’altro, con quello che è stato detto il sotto-genere più globale del romanzo – “il giallo… la risposta più fortunata alla fine delle patrie e alla trasformazione del mondo in luogo unico” (Coletti 2011: 82).
Il brand di un’Italia un poco “altra” di cui il meridione è emblema – “emblema di una delle diversità italiane, perché si colloca in modo originale ed eccentrico rispetto al capillare processo di disciplinamento della modernità” (de Rogatis 2016: 289-290) – è infatti pervasivo nel secondo “genere” di Goodreads riguardante il romanzo italiano: “Italy Books”. Tra i primi cinquanta titoli, e limitandoci ai romanzi, troviamo, insieme agli onnipresenti Eco, Ferrante, Giordano, Ammaniti e Calvino, e con l’aggiunta, appunto, del meridionalissimo Andrea Camilleri, una serie di romanzi italiani scritti però da autori non italiani. Spiccano tra questi Eat, Pray, Love di Elizabeth Gilbert, Inferno di Dan Brown, Under the Tuscan Sun di Frances Mayes, e praticamente l’opera omnia di Donna Leon – scrittrice di romanzi italiani (gialli ambientati a Venezia, cos’altro sono?) popolarissimi al di fuori dell’Italia stessa. Che il “genere” Italy sia egemonizzato da pubblicazioni non-italiane è forse indice della “debolezza” delle industrie creative italiane, in specie quelle editoriali, “minoritarie rispetto ai concorrenti stranieri” (Santagata 2007: 91); o è forse, invece, l’indice della mancanza di pudore patrio necessaria a dispiegare armate intere di luoghi comuni per potere vendere un romanzo che rechi il marchio del brand Italia su un mercato globale.
Infatti, è proprio qui che troviamo uno specifico, e forte, brand Italia – quello dell’Italia sudicia, mafiosa, dei misteri, degli intrighi vaticani; e quello più cartolinesco, esplicitato alla pagina di Under the Tuscan Sun, dei “pleasures of Italian life and […] her table”.10 Certo, c’è poi sempre il lettore come Leftbanker (sarà forse il nome), cui questo brand Italia non convince poi del tutto:
for the life of me I can’t see why [this book is] so popular. What if she had written about remodeling a house in North Dakota? Would that be interesting? Of course not, so why are the tedious details of doing the same in Italy any different? This book has about as much to do with Italy as it does with North Dakota (2007).
Ma è proprio questo il punto: cosa fa di Under the Tuscan Sun un così enorme successo? Cosa può il brand Italia che il brand North Dakota non può?
Resta così il fatto che, nella deregulation del mercato editoriale dominato da piattaforme digitali e literary agent, la ripetizione – di cui il “raccontare in fretta” (Simonetti 2016: 250) è solo uno degli effetti – si afferma anche come nuovo modo di produzione culturale: serie, stagioni, sequel, prequel, trasposizioni, riadattamenti, binging, ecc. (Meneghelli 2018, Broe 2019); ma anche, e soprattutto, ripetizioni di luoghi comuni – di quello che, e il brand Italia lo assicura, l’Italia, e non il North Dakota, si presume che sia. In tale contesto, il romanzo italiano, per sopravvivere nel mercato globale, corre dei rischi. Invece che produrre un brand o un canone post-risorgimentale, rischia di essere prodotto, esso stesso, dal brand Italia: o dai “past cultural achievements” di una veneranda tradizione di “qualità”; o dall’altrettanto veneranda tradizione, come scriveva Montesquieu nei suoi Voyages, di un’Italia così esoticamente “diversa”.11 Insomma:
è sempre prossimo il pericolo: alla fine si accetta semplicemente come altrettanto veneranda qualsiasi cosa antica o passata (Nietzsche 1993: 349).
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Srnicek, Nick (2017). Platform Capitalism. Cambridge: Polity Press.
Thompson, John B. (2012). Merchants of Culture: The Publishing Business in the Twenty-First Century. New York: Plume.
Todorov, Tzvetan (1976). Introduction à La littérature fantastique. Paris: Editions du Seuil.
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Walkowitz, Rebecca (2015). Born Translated: The Contemporary Novel in an Age of World Literature. New York: Columbia University Press.
Zaccaria, Giuseppe (1984). La fabbrica del romanzo, 1861-1914. Genève: Slatkine.
Cf. Naomi Klein: “market-driven globalization doesn’t want diversity; quite the opposite. Its enemies are national habits, local brands and distinctive regional tastes” (Klein 1999: 106).↩︎
“Globalization is not a simple process of homogenization; it implies, in equal measure, processes of homogenization and heterogenization” (Hardt e Negri 2019: 73).↩︎
“Name-dropping is […] to be grasped as in-group style: the brand names are also the wink of familiarity, to the reader in the know” (Jameson 2005: 387).↩︎
“Monopoly rent arises because social actors can realize an enhanced income stream over an extended time by virtue of their exclusive control over some directly or indirectly tradable item which is in some crucial respect is unique and non-replicable” (Harvey 2009: 94).↩︎
“Il segreto di tale tentativo sta nel dare ai movimenti di massa un’espressione invece di organizzarli. Oppure, detto altrimenti: il fascismo cerca di dare a questi movimenti di massa una forma immediata, invece di condurli alla loro forma mediata attraverso il sovvertimento dei rapporti di produzione e di proprietà” (Benjamin 2019: 30).↩︎
Rendita monopolistica supplementare, e non sostitutiva, rispetto a quella generata dal lavoro umano: “During the late 1990s, e-commerce companies thought they could outsource the material aspects of exchange to others. But this proved to be insufficient, and companies ended up taking on the tasks of building warehouses and logistical networks and hiring large numbers of workers […]. It is also by far the largest employer in the digital economy, employing over 230,000 workers and tens of thousands of seasonal workers, most of whom do low-wage and highly stressful jobs in warehouses” (Srnicek 2017: 60).↩︎
“Une comparaison s’impose alors à l’esprit: celle du produit artisanal, de l’exemplaire unique, d’une part; et du travail à la chaîne, du stéréotype mécanique, de l’autre […] Pour revenir à la matière qui est la nôtre, seule la littérature de masse […] devrait appeler la notion de genre; celle-ci serait inapplicable aux textes proprement littéraires” (Todorov 1976: 10).↩︎
Statista, “Number of registered members on Goodreads from May 2011 to July 2019.” https://www.statista.com/statistics/252986/number-of-registered-members-on-goodreadscom/ (ultimo accesso 08-09-20).↩︎
Giuliana Benvenuti, “Le forme transmediali del noir all’italiana tra impegno, denuncia e mercato”, in corso di pubblicazione, Italian Culture.↩︎
https://www.francesmayesbooks.com/under-the-tuscan-sun (ultimo accesso 12-11-2020).↩︎
“Saint Père, vous ne savez la différence de la France à l'Italie” (Montesquieu 1949: I.667).↩︎