1 Amnistie
Proseguendo gli studi sulla gioventù dei Gruppi Universitari Fascisti, Luca La Rovere ha eseguito con ricchezza di documentazione e acume ermeneutico un approfondito scandaglio degli atteggiamenti, delle posizioni e delle sottili sfumature tonali che le pieghe degli scritti e delle memorie degli ex-fascisti universitari ci hanno lasciato, valorizzando tra i primi e pochi anche la pubblicistica “minore”, contribuendo finemente al dibattito, tutt’altro che parco, sulle interpretazioni della transizione al postfascismo, del tema dell’antifascismo e in generale sull’“eredita del fascismo” (La Rovere 2008; 2012).1
La ragione per cui ce ne occupiamo ora è legata essenzialmente alla necessità di inquadrare il capitale simbolico e ideologico che i Cineguf (e i loro film) hanno incarnato, in anni di complessa e controversa re-visione – letteralmente – della memoria.2 Molti animatori delle sezioni cinematografiche dei Guf hanno vissuto in prima persona il problema spirituale e materiale della costruzione, elaborazione e tradizione dell’immagine – o di un’immagine – del loro passato, in un contesto dove la metabolizzazione della colpa e l’esame introspettivo della coscienza di una nazione sono stati tra i più travagliati e controversi del panorama europeo. Come ha ben scritto La Rovere, “la questione della colpa non trovò in Italia una formulazione netta e sistematica, analogamente a quanto sarebbe avvenuto in Germania ad opera di Karl Jaspers”3 (La Rovere 2008: 51). La posizione di Croce, ad esempio, nel contesto culturale nazionale è emblematica dell’opposizione degli italiani alla rilevanza storica e morale di una questione della colpa (La Rovere 2008: 102): questa invero si è articolata in forme e tendenze assai varie4 e non solo nei termini esclusivi di una “rimozione” del passato; il volume di La Rovere ha in questo senso il pregio di affrontare sistematicamente settori e ambienti diversi della società e del discorso pubblico sulla “colpa” e il trascorso fascista degli italiani, ma anche “tempi” diversi e intensità diverse di questo discorso.
Se è indubbio che dopo l’8 settembre 1943 il discorso sul fascismo cambia profondamente, questo tuttavia continuò “sia pure in tono minore e concentrandosi soltanto su alcuni aspetti, anche nei difficili mesi dell’occupazione, per poi riprendere in quelli successivi alla Liberazione” (La Rovere 2008: 54). Ed è soprattutto questa seconda fase del travaglio etico e politico ad interessarci, costretta nella duplice funzione di realizzare una cesura netta col passato – sensibilità riscontrata a tutti i livelli dell’opinione pubblica nei primi anni del dopoguerra – e la necessità di “costruire un’immagine rassicurante del passato in funzione dell’avvenire” (La Rovere 2008: 93), non senza ambiguità, distorsioni e sdoppiamenti interiori. Nel confermare la complessità morale e “retorica” di questa fase, La Rovere è attento a registrare le molte manifestazioni diverse, non di rado antitetiche, trasmesse anche da medesimi ambienti: emerge una narrazione insoluta e non riducibile a univoci schieramenti. È una fase che ha avuto un grande momento di concentrazione e accelerazione nel dibattito sull’“epurazione”, poi risolto dall’amnistia di Togliatti (Franzinelli 2016)5 nel 1946: un passaggio che ha sancito una prima fondamentale consapevolezza e cioè che “era pressoché impossibile distinguere coloro che avevano aderito al Pnf per quieto vivere da quanti avevano sinceramente creduto nel fascismo o avevano utilizzato la tessera per spirito carrieristico, per trarne illeciti vantaggi, se non, addirittura, per dare sfogo a una perversa brama di potere garantita dall’impunità” (La Rovere 2008: 90). La scelta dell’amnistia apparve così l’unica possibile in una fase in cui “la linea di confine tra fascisti e antifascisti si era assottigliata fino quasi a svanire” producendo la “paradossale conseguenza di rendere difficile, almeno da un punto di vista formale, la stessa distinzione tra epurandi ed epuratori” (entrambe le citazioni: La Rovere 2008: 91).
È su questo sfondo che si stagliano, in un periodo piuttosto lungo, le complesse, travagliate e contradditorie manifestazioni di un discorso sul fascismo che vuole trovare nuove vie al passato.
2 Silenzio d’archivio: la generazione dei Guf
L’origine greca della parola ἀμνηστία, amnestía, rimanda esplicitamente al concetto di “dimenticanza” ed è pertanto su questo che vogliamo avviare una prima riflessione: il cinema dei Cineguf è stato “dimenticato” per molti anni. La storia del cinema dei Cineguf va naturalmente riletta assieme alla complessa elaborazione del cinema del periodo fascista,6 che qui non ricostruiamo, e che ricorderemo solo per alcuni dei suoi passaggi; tuttavia la vicenda del cinema dei Cineguf ha una sua specificità, che richiede una trattazione particolare.
Sulla scorta di Vito Zagarrio – “tutto comincia negli anni Settanta” (Zagarrio 2004: 13) – Claudio Bisoni propone una scansione temporale del dibattito culturale e storiografico su cinema e fascismo in Italia, che vede una prima decisiva fase collocarsi dal dopoguerra ai primi anni Settanta. Una fase molto lunga che esprime un importante approdo: le giornate pesaresi di settembre 1975, quando “un gruppo di nuovi cinefili e studiosi, che in parte avevano cominciato ad affilare le proprie armi e a riconsiderare la storia del cinema alla luce delle rassegne dei cine-club settanteschi, propone prima un convegno sul neorealismo (accompagnato da opportuna rassegna), e poi, l’anno successivo, una serie di materiali sul cinema italiano nel periodo dal ’29 al ’43” (Bisoni 2010). In questa fase gli anni trenta sono liquidati come “un periodo culturalmente vergognoso e quantitativamente povero” (Bisoni 2010). Come tutte le periodizzazioni, anche questa inevitabilmente si espone a qualche semplificazione – e invero Bisoni ammette giustamente che “le eccezioni ci sono, ma sono poche: Il lungo viaggio del cinema italiano, a cura di Orio Caldiron (1965); Il cinema italiano dal fascismo all’antifascismo, a cura di Giorgio Tinazzi (1966) e Umberto Barbaro e l’idea di neorealismo, di Brunetta (1969)” –, tuttavia per il dibattito più generale è indubbio che il 1975 e le giornate pesaresi siano stati uno spartiacque decisivo, segnato significativamente dal recupero dei film del periodo fascista e da una rinnovata visione supportata da apparati documentali via via sempre più sofisticati e disponibili. Sarà proprio a partire da quell’occasione – con i Nuovi materiali sul cinema italiano 1929-1943, pubblicati nel 1976 e il convegno Cinema italiano sotto il fascismo organizzato ad Ancona nel 1976 dalla Mostra internazionale del nuovo cinema (a cui avrebbe fatto seguito, nel 1979, la pubblicazione degli atti per i tipi di Marsilio) – che si torna a parlare di Cineguf: tra i primi contributi quello di Gian Piero Brunetta, autore già nel 1975 di Cinema italiano tra le due guerre. Fascismo e politica cinematografica (Brunetta 1975), ne scrive anche Philip V. Cannistraro nel 1972 e poi nel 1975 recuperando una preziosa documentazione dagli archivi statali (Cannistraro 1972: 440; 1975: 301, 312, 400) e poi certamente Orio Caldiron (Caldiron 1980) nel 1980. Le eccezioni a cui accenna Bisoni sono significative: le ricerche di Orio Caldiron pubblicate nel 1980 capitalizzano il lavoro di scavo svolto sulla rivista Cinema (Caldiron 1965) nel 1965 e va ricordato che egli ribadì esplicitamente la necessità di una verifica sulle riviste e le attività dei Cineguf nel 1966 e nel 1968 (Caldiron 1966; 1968: 140, nota). Sempre nel 1965 i Cineguf sono citati negli studi di Renzo De Felice, menzionati tra le strutture dei Gruppi universitari fascisti (De Felice 1965: 231) e prim’ancora nel 1964 nella rivista Il Veltro. Rivista della civiltà italiana che dedica due numeri ai “Documenti per la storia della gioventù italiana: 1943-1963”, dove si legge che i Cineguf erano “gruppi universitari di istituzione fascista – 1933 –, ma a volte impegnati in un positivo anticonformismo” (Gambetti 1964: 658). Alla metà degli anni Sessanta si addensa infatti una fase fondamentale per l’elaborazione della storiografia del fascismo (Gentile 2008: 86-89): si arriva progressivamente alla maturazione di un discorso storiografico che si discosta dalla memorialistica e avanza fondamentali ipotesi interpretative; nel 1965 prende avvio la monumentale biografia di Mussolini a cura di Renzo De Felice, ma è decisiva anche la pubblicazione del volume di Alberto Aquarone sull’organizzazione dello stato totalitario (Aquarone 1965). Dunque la pionieristica impresa di Orio Caldiron, che tra l’altro pubblica rarissimi fotogrammi dei film del Guf patavino per la regia di Antonio Leon Viola, non è occasionale.
Tuttavia possiamo dire che la ricostruzione della storia e dell’esperienza dei Cineguf sconti un ritardo legato alla gestazione del dibattito più generale su cinema e fascismo, che, a partire dai primi segni di una nuova sensibilità storiografica deve attendere la metà degli anni Settanta per gli esiti più compiuti.
Un aspetto importante che vale la pena ribadire, rispetto alla fase inaugurata dalle giornate pesaresi del 1975 – l’inizio di quella che Claudio Bisoni identifica come la “seconda fase” del dibattito su cinema e fascismo –, è la “riscoperta” dei film del fascismo, intesi in quel frangente come veri e propri documenti storici: non è un caso che grande enfasi sia stata riposta nella necessità di un’analisi quasi filologica.
La riscoperta dei film, la loro proiezione pubblica e la loro interrogazione da parte dello storico o dello studioso, attraverso un nuovo e più rigoroso set di strumenti (imprescindibili in questo senso le schede e i materiali documentali e filmografici distribuiti durante la manifestazione) (Udmp 1975) sono il presupposto fondamentale per una svolta storiografica potente: la riscoperta e la rinnovata visione di testi filmici troppo a lungo dimenticati produce effetti dirompenti e una revisione profonda delle coordinate critiche e storiografiche degli studiosi di cinema. Quella del 1975 è una svolta di ordine “documentale”: è l’archivio ad innescare un salto di paradigma, il film come documento e lo sviluppo di una sensibilità filologica rispetto al documento – in assonanza a quanto era accaduto qualche anno prima nella storiografia sul fascismo.
Ma come si è arrivati a quella nuova fase? È in questa prospettiva che vogliamo riflettere sul “silenzio dell’archivio” che segna il cinema dei Guf.
Quando parliamo di silenzio dell’archivio chiamiamo in causa due categorie critiche parzialmente sovrapponibili: quella del “silenzio” nel campo dei memory studies (Winter 2010) e quella del “silenzio d’archivio” nel campo dell’archivistica (Fowler 2017). La nozione di “silenzio”, cosi come discussa da Jay Winter, ci interessa per come sposta l’attenzione critica dall’assenza – un apparente annientamento di contenuto – all’analisi dei “rumori di fondo non intenzionali” che definiscono la “costruzione sociale del silenzio”: “il silenzio – scrive Winter – è uno spazio socialmente costruito in cui e sul quale soggetti e parole che si esprimono normalmente nella vita quotidiana, non si sentono” (Winter 2010: 4, trad. mia). Il silenzio dell’archivio insiste, più pragmaticamente, sulla non-neutralità delle istituzioni archivistiche e sulle ragioni per cui oggetti o testi del passato vengano esclusi dalla preservazione o resi inaccessibili per un certo periodo: il silenzio per motivi di conflittualità sociale o politica, il silenzio per selezione interna del materiale, il silenzio dei segreti istituzionali, il silenzio per la distruzione dei materiali. Il silenzio dell’archivio si articola specificamente su una base che è anche e soprattutto operativa, ma valgono, a monte, i caratteri culturali del silenzio che impattano sulla memoria collettiva, sulla memoria di una società, soprattutto se questa è reduce da un trauma, come quello bellico o della Shoah. Della prospettiva di Winter sono due i caratteri del silenzio memoriale ad interessarci e a riflettersi nelle politiche d’archivio per il caso dei Cineguf: quelli che Winter chiama il silenzio “politico” e il silenzio “essenzialista” (vi è una terza tipologia, il silenzio “liturgico”, legata alla dimensione del sacro, della perdita e del lutto che molto marginalmente riguarda il nostro oggetto). Il silenzio politico è ammesso e impiegato – scrive Winter – “con l’obiettivo di sospendere o troncare conflitti in corso, al di sopra e al di là del senso e/o della giustificazione delle violenze, siano esse di ordine nazionale o trans-nazionale. La speranza qui è che il passare del tempo possa abbassare il livello dello scontro su tali eventi, o addirittura lenire le ferite che sono state provocate” (Winter 2010: 5, trad. mia). È un silenzio strategico. Il silenzio “essenzialista” ne è intimamente legato: è un impulso associato a dinamiche di privilegio e risponde essenzialmente a chi ha il diritto di parlare del passato. Sono i protagonisti di quegli eventi a (auto)riconoscersi l’autorità necessaria per poterli evocare e preferiscono, strategicamente, una forma di silenzio (Winter 2010: 6, trad. mia). Non tutti: ma, nel nostro caso specifico, l’eccezione confermerà drammaticamente e platealmente la regola.
Nel periodo tra la fine della guerra e la metà degli anni Sessanta i Cineguf non sono completamente assenti dal dibattito, tuttavia la loro saltuaria emersione nel discorso memoriale ci aiuta a comprendere la natura complessa dell’elaborazione di quella esperienza per la generazione che l’aveva vissuta.
Il punto di vista generazionale diventa in questo senso centrale: la generazione cresciuta nei Cineguf e il mondo della cultura cinematografica negli anni del fascismo è anche la generazione di artisti, studiosi o critici che ha avuto l’autorità per parlarne per prima. La generazione di Guido Aristarco, Ugo Casiraghi, Luciano Emmer, Carlo Lizzani, Mario Monicelli, Renzo Renzi, Glauco Viazzi, per citarne alcuni, è una generazione che affronta un travaglio intellettuale densissimo di conseguenze nel campo cinematografico, proprio in relazione alle esperienze del periodo fascista, dentro e fuori dai Cineguf.
Negli anni Cinquanta il confronto con l’eredità dei Cineguf si rende sempre più inevitabile almeno in due campi: il primo è il campo politico, nel solco di dibattiti innescati tanto da alcuni protagonisti di quella generazione, quanto dal processo di destalinizzazione dell’area comunista; il secondo è il campo culturale e riguarda le dinamiche di trasformazione del cinema amatoriale da una parte e della vita associazionistica dall’altra. Presenteremo di seguito alcuni casi – limitati nel numero ma, auspichiamo, esemplari: sia per il peso rappresentativo che i soggetti interessati hanno raggiunto nella storia italiana di queste vicende, sia per il valore euristico che questi rivestono, come indici di una realtà che richiama ulteriori esplorazioni e mostra spie di direzioni di ricerca su cui sarà necessario puntare lo sguardo con maggior scrupolo e sistematicità.
3 Il campo politico: Renzo Renzi e Il pugnale tra i denti (1959)
Aristarco e Renzi, di area socialista, provocano la scintilla più significativa per l’avvio di una riflessione collettiva nell’arena politica e critica. Pensiamo a due eventi dirompenti in questo senso: la pubblicazione del soggetto di Renzo Renzi del film L’armata s’agapò,7 nel numero 4 del 1953 della rivista quindicinale Cinema Nuovo (Renzi 1953), diretta da Guido Aristarco e, soprattutto, l’articolo di Renzo Renzi Sciolti dal giuramento, nel numero 84 del 10 giugno 1956 di Cinema Nuovo. Il processo di destalinizzazione che investe anche la critica cinematografica e quella generazione in particolare dà il là a una revisione del proprio passato, il più recente (si rivolge alla critica di sinistra e comunista), ma anche, implicitamente, il meno prossimo (si fa riferimento al passato fascista): “Se parleremo di errori altrui – scrive Renzi nel 1956 – nessuno dovrà intenderlo come un atto di sciocca superbia. Ciascuno di noi (e il sottoscritto in particolare) ha alle spalle una tale serie di giudizi sbagliati da essere costretto, anche suo malgrado, alla reciproca comprensione e tolleranza”. Renzi, come Aristarco, avevano militato in gioventù negli ambienti gufini – Renzi nel Cineguf di Bologna e Aristarco in quello di Mantova, e diventa una firma molto riconosciuta sul periodico Pattuglia del Guf di Forlì, oltre che su altre testate e quotidiani. Renzo Renzi è anche autore di due film sperimentali per il Guf di Bologna: La città nemica (1939) e L’arsenale (1941), oggi conservati dalla Cineteca di Bologna. Gli interventi di Renzi e Aristarco8 nel 1953 e nel 1956 ci interessano perché significativi di due atteggiamenti che ci aiutano a spiegare le condizioni di quel lungo “silenzio” sulla vicenda dei Cineguf. Renzi Renzi negli anni Cinquanta è certamente tra gli intellettuali di quella generazione, quello che più di altri vive l’elaborazione della memoria del passato fascista con profondità, pagandone di persona le conseguenze – Aristarco ne è un fondamentale comprimario.
Appena qualche anno dopo la pubblicazione di Sciolti dal giuramento, Renzi avvia la scrittura di un soggetto cinematografico di un film sui Guf, poi pubblicato con il titolo Il pugnale tra i denti, nel volume curato da Carlo Di Carlo Il cortometraggio italiano antifascista (Di Carlo 1959); lo presenta con queste parole al produttore Dino De Laurentiis: “[…] L’argomento è di quelli che non possono essere abbandonati. Se noi trascuriamo il nostro recente passato, così clamoroso del resto, e i drammi che lo hanno accompagnato, le cui tracce sono ancora così vive, rischiamo di gettar via una materia che, invece, può servire moltissimo a caratterizzare la nostra produzione” – e continua – “Resta, tuttavia, la difficoltà dell’argomento. Generalmente si pensa che esso possa offendere una parte del pubblico. Ma io credo – con l’impostazione che ho dato al racconto – di avere superato completamente l’ostacolo. Infatti i due protagonisti, che esprimono due posizioni diverse (fascismo – antifascismo), sono visti entrambi con la medesima comprensione”.9 Negli appunti dattiloscritti sul film arriva a pensare ad un regista: “Il nome di regista che mi pare più adatto a trattare un simile argomento è quello di Mario Monicelli. Il film, del resto, dovrebbe essere una commedia che si trasforma un po’ alla volta in tragedia, come La grande guerra”.10 Renzi incarna nel progetto una posizione generazionale e vede il film come una testimonianza paterna doverosa, negli appunti dattiloscritti indica, infatti, un sottotitolo assai eloquente: “I quarantenni raccontano i loro difficili vent’anni ai ventenni di oggi”.11 Il soggetto, infatti, si chiude con una frase che condensa la posizione di tutta una generazione: “Il film non è offensivo per nessun pubblico perché i protagonisti, pure in posizioni contrastanti, sono in buona fede e persino simpatici. Essi sono, infatti, soltanto delle vittime di quello che non sanno e dei loro vent’anni”.12 Intanto, nelle precauzioni che Renzi giustifica a De Laurentiis, vi è l’implicita ammissione che sussista un silenzio di tipo politico sul racconto di quelle vicende, rispondente all’“l’obiettivo di sospendere o troncare conflitti in corso” (Winter 2010: 4, trad. mia), come si è detto. D’altra parte però si materializza qui – come anche nelle parole che Renzi rivolge ecumenicamente a chi, dopo la morte di Stalin, si trova a dover fari i conti con un passato altrettanto ingombrante – una “memoria indulgente” (Baldassini 2013) di “reciproca comprensione e tolleranza” (Renzi 1956: 340), una posizione diffusa nella cultura politica moderata.13 Ma la volontà memoriale di Renzi non cambia la sostanza del silenzio che si è addensato attorno alla storia dei Guf: è stato recentemente Giacomo Lichtner a mettere in luce come, nel caso del cinema italiano, “la memoria e la rimozione sono due movimenti che contribuiscono simultaneamente a, e sono informati da, un’immagine autoprodotta della nazione centrata sul vittimismo” (Lichtner 2015: 28, trad. mia).14 Si tratta cioè di una particolare variazione di quel allineamento generalizzato rispetto alla narrazione degli “italiani brava gente”, che ha trovato nel cinema italiano coevo una sponda fondamentale. Il riferimento a Mario Monicelli e alla commedia di La grande guerra non fa che rendere esplicito il debito rispetto a quell’orizzonte narrativo: il film di Monicelli, vincitore alla Mostra del cinema di Venezia 1959, insieme con Il Generale della Rovere di Roberto Rossellini, premiato ex-aequo alla stessa manifestazione, “hanno costruito” – osserva Lichtner – “una memoria del fascismo su misura per il miracolo economico, che era debitrice del neorealismo per la sua estetica, ma aveva perso la sua ambizione politica e morale e conteneva solo labili barlumi di una qualsivoglia provocazione al discorso dominante sulla brava gente” (Lichtner 2015: 31, trad. mia).15
La posizione di Renzi in questi fatti, tuttavia, va compresa alla luce di quanto emerso dal caso L’armata s’agapò nel 1953. Il soggetto questa volta non riguardava tanto la vita dei Guf, quanto un’elaborazione di ricordi ed esperienze del giovane Renzi come ufficiale dell’esercito in Grecia. Non ci soffermiamo a lungo su una vicenda già ampiamente ricostruita,16 ma vale la pena ricordare che il punto contestato dall’accusa contro Renzi e Aristarco – che ha scatenato immediatamente la denuncia da parte dell’esercito, costata loro qualche mese di carcere – è la visione storica che contraddiceva platealmente il mito della brava gente: “il messaggio che il giudizio del tribunale militare avrebbe potuto comminare in autonomia qualsiasi pena arrivò forte e chiaro e nessuno, per diversi anni, si azzardò più a offrire ritratti negativi delle autorità italiane, anche di quelle del periodo fascista” (Manzoli 2018). Renzi, tornando in tarda età sulla vicenda, scrive “un poco perché segretamente adirato da queste capriole della storia che ci costringevano ad acrobatici aggiustamenti, un poco perché l’occasione mi serviva a spalancare le porte della coscienza, da quel momento persi ogni pudore” (Renzi 2001: 21). Tuttavia, dopo la violenta reazione scatenata dalla pubblicazione di L’armata s’agapò, a ben vedere la posizione espressa in Sciolti dal giuramento nel 1956 è dura, ma cauta nello stesso tempo, mettendo sullo stesso piano le colpe del comunismo e quelle del fascismo, propaganda sovietica e propaganda fascista, Il giuramento di Mikheil Chiaureli (1945) e Camicia nera (1933) di Gioacchino Forzano e ammonendo ecumenicamente rispetto ai rischi della cieca adesione all’ideologia. Analogamente la visione storica e le precauzioni espresse nel soggetto di Il pugnale tra i denti nel 1959 sembrano rientrare nel solco di una narrazione condivisa. Il doloroso mea culpa è certamente molto forte e sentito da Renzi, l’esito però – in un atto che palesa l’urgenza della memoria – è una “comprensione e tolleranza reciproca” a fronte di una confessione o ammissione che lascia intendere un destino comune, un nuovo equilibrio trans-ideologico tra le diverse fazioni che devono scontare i postumi delle due più grandi “rivoluzioni” politiche del Novecento: il comunismo e il fascismo…eppure sottotraccia riemerge lo spettro dell’amnistia e dell’amnesia.
Ripercorrendo quei fatti, nel 1981 Guido Aristarco riconosce che mancava ancora, in quel momento, un serio scrutinio delle posizioni di quella generazione durante il fascismo: “Quando si è parlato, a un certo momento, di riviste d’anteguerra come Cinema e Bianco e nero, si è badato soprattutto a metterne in risalto gli aspetti positivi, la fronda, la maturazione di esigenze e di impostazioni culturali che avrebbero preparato il grande sviluppo del cinema italiano dopo il ’45. Si è trascurato tuttavia un aspetto forse momentaneamente secondario, ma non privo di importanza: di vedere cioè come queste riviste, questo movimento di cultura che pure viveva (in parte fastidioso, in parte incoraggiato) sotto l’ala del fascismo, abbia potuto coabitare con esso; quali sono state, cioè, le possibili connivenze” (Aristarco 1981: 8). L’enfasi sul frondismo – e di converso su una forma diffusa di “dissimulazione onesta” (Serri 2005: Kindle pos. 663), se non proprio di “nicodemismo” – è d’altra parte il corollario necessario alla narrazione degli “italiani brava gente”, l’altra faccia della medaglia, il riflesso inverso della retorica ben espressa da Renzi sui giovani “vittime di quello che non sanno e dei loro vent’anni”: sono due posizioni sottese tanto sul fronte dei moderati e dei conservatori, quanto su quello della sinistra e – sostiene Cristina Baldassini (Baldassini 2013: 83) – ben rappresentati da due testimonianze cardinali ed emblematiche, quella di Indro Montanelli (Montanelli 1947; 1962)17 e di Ruggero Zangrandi (Zangrandi 1948; 1962). Mirella Serri sottolinea ancor più chiaramente che – nell’immediato dopoguerra – furono le stesse compagini partitiche di sinistra a legittimare, strategicamente, queste posizioni: “spinto anche dalla necessità di sottrarsi alla scomoda immagine di lido benevolo per gli ex fascisti, proprio il PCI sosterrà sempre più alacremente quello che fino al 1943 aveva negato: ovvero che in Italia aveva avuto largo margine di manovra l’antifascismo in camicia nera” (Serri 2005: Kindle pos. 201).
Nel 2001 Renzo Renzi è tornato su quegli eventi e su quelle pagine con una trasparenza e una lucidità ben più netta, lasciando intendere una visione meno indulgente dei fatti, della “generazione sfortunata” e del cosiddetto frondismo: “mi chiederei: fino a che punto le posizioni ‘entriste’ (cioè la possibilità, da parte dei militari clandestini della sinistra, di entrare e partecipare a certe organizzazioni fasciste, come i sindacati, i Guf, il Dopolavoro per esempio, ovviamente per uno scopo decisamente antifascista) finirono per colludere, oggettivamente, almeno col ‘fascismo di sinistra’ […]. In tal modo, intrecciandosi per qualche tratto la sinistra col fascismo di sinistra, si produsse quella che potremmo definire una ‘cultura della collusione’, che diventò, per molti, senso comune intellettuale” (Renzi 2001: 25). Una tale posizione però, a detta dello stesso Renzi, giunge al termine un lungo processo di elaborazione della memoria del fascismo, portato a piena maturazione non prima degli anni Ottanta, dopo l’importante svolta Pesarese.
4 Il campo culturale: l’eredità dei Cineguf tra Cineclub, Circoli del cinema e CUC
L’eredità dei Cineguf nel quadro del libero associazionismo del dopoguerra presenta ulteriori elementi di complessità e forme di rimozione più o meno esplicite. Fin dai primi contributi che tracciano la storia di enti e strutture associative nel dopoguerra, si attesta la scissione di pratiche che nei Cineguf erano integrate e inscindibili: ovvero l’attività critica e la produzione dei film a passo ridotto.18 In uno dei primi contributi retrospettivi sulla FICC – Federazione italiana dei circoli del cinema, Giacomo Gambetti scrive:
Bisogna chiarire immediatamente che per ‘circoli del cinema’ si intende non una associazione – professionale o dilettantesca – di realizzazione cinematografica: queste sono chiamate, piuttosto, e per convenzione, ‘cine-club’, anche in Italia, e raccolgono i cineamatori i quali si dilettano, con macchine da presa ‘a passo ridotto’ di produrre e dirigere brevi film, che solo raramente sono qualcosa di più che un semplice passatempo personale (Gambetti 1964: 657).
La separazione delle pratiche – fonte di una prima pluralizzazione e di una specializzazione che tende a separare idealmente formazione critica e sperimentazione produttiva – si unisce al riflesso di un bipolarismo conflittuale post-bellico, che lo scenario internazionale della Guerra fredda ha reso radicalmente pervasivo (Formigoni 2016: 10): da una parte la Dc e i suoi alleati, dall’altra il Pci e il suo mondo di riferimento, l’associazionismo si parcellizza in enti e soggetti governati da equilibri di rappresentanza ostinatamente cercati e strenuamente difesi. Il campo dell’associazionismo cinematografico, in quegli anni, è uno schermo di potente rifrazione delle incidenze e dei flussi ondivaghi e tutt’altro che netti dello spazio culturale e politico. Già nel 1964 si legge: “Il cinema fu, negli anni del dopoguerra, la forma d’espressione, e in qualche caso la forma d’arte, più viva e più immediatamente vicina a cogliere il sapore dei tempi e l’atmosfera eccezionale di quegli anni di rinnovamento e di eccezione” (Gambetti 1964: 658). Rinnovamento ed eccezione sono certamente due termini che riportano efficacemente tendenze complesse e percorsi non lineari.
Tanto l’orizzonte delle pratiche sperimentali e passoridottistiche, quanto quello della ricerca critica e culturale devono far fronte a sopravvivenze ingombranti e imbarazzanti del passato fascista: tecnologie, infrastrutture, personalità e naturalmente i film dei Cineguf. La pratica sperimentale del passo ridotto vede i Cineclub19 e la Fedic – Federazione Italiana dei Cineclub come soggetti di rappresentanza e spazi di accoglienza per una vasta lega di “cineasti moderati”, come sottolinea Ernesto Laura, fondamentale testimone di quella fase: è lui stesso a insistere sulla complessa metabolizzazione delle tracce di continuità con l’esperienza fascista. Quello dei Cineguf, scrive Laura, è “un ingombrante ricordo” e “un’esperienza storica ambivalente” (Laura 1999: 15-16) che si riflette, ad esempio, nell’eredità materiale delle attrezzature dei Cineguf20: macchine da presa, pellicole, equipaggiamento tecnologico riemergono nei gruppi di cineamatori attivi nella Fedic; non solo: Laura lascia intendere che la continuità con i Cineguf sia anche “ideale”, nei termini di una struttura allineata agli orientamenti governativi. L’associazione nasce – sottolinea Laura – per fare da contraltare ai Circoli del cinema, di area comunista e di sinistra, e per reclutare e crescere una nuova leva di cineasti, fuori dall’area di sinistra21: nei primi anni di vita dell’associazione la direzione di Tito Marconi, presidente di Cinecittà ed esponente romano della Dc molto vicino ad Andreotti, assicura una struttura che nei fatti si pone a servizio del governo, assecondandone le funzioni strategiche, su un modello molto simile ai Cineguf. D’altra parte la continuità si legge anche negli altri esponenti del direttivo: i vice-presidenti sono Vittorio Gallo, ex-direttore dell’Istituto Luce a Venezia, tra il 1944 e il 1945, sotto la Repubblica di Salò e Gianni De Tomasi, proveniente dal Ministero della Cultura Popolare, e ispettore generale della Presidenza del Consiglio dei Ministri di Giulio Andreotti (Laura 1999: 16-17).
Eppure, nel campo della produzione passo-ridottistica, rimane la preoccupazione per una distanza formale dalle personalità del Cineguf: piuttosto eloquente una lettera firmata da Leonardo Algardi e diretta a Giuseppe Tavazza, direttore dell’Unione Nazionale cinematografica del formato ridotto dell’Anica. Il 14 luglio 1956 Algardi, direttore della cineteca della Società geografica italiana, pioniere dell’associazionismo cinematografico tra le due guerre, fondatore del Filocinegruppo di Genova nel 1930 (Anon. 1930: 12), della Associazione Fotografica Ligure, ex-esponente del Cineguf di Genova, fondatore della Microfilm e direttore dell’ufficio passo ridotto dell’Istituto Luce nei primi anni Quaranta, si rivolge a Tavazza chiedendo la costituzione di un comitato nazionale di pionieri del passo ridotto, affinché “nelle manifestazioni cineridottistiche – la missiva riguarda in particolare i convegni sul passo ridotto, NdA – non si continuino a ripetere questioni ormai scontate da lungo tempo” (Anica 1956). A balzare all’occhio è il criterio proposto per la composizione del comitato e la lista di nomi che viene avanzata: Algardi consiglia di reclutare “esponenti di Cineclub anteriormente al loro assorbimento da parte dei Cineguf, cioè prima del 1934” (Anica 1956). Idealmente Algardi vuole riprendere un discorso “interrotto” dall’esperienza dei Cineguf, richiamando personalità di spicco del primo associazionismo cinematografico, tra cui troviamo naturalmente anche Algardi stesso, affermando implicitamente l’esistenza di una “parentesi” totalitaria nella storia dell’associazionismo cinematografico italiano: Ubaldo Magnaghi (Milano), Fernando Cerchio (Torino), Mario Damicelli e Francesco Pasinetti (Venezia, morto nel 1949: Pasinetti viene inserito indubbiamente per il capitale simbolico che ha incarnato), Antonio Leon Viola (Padova), Leonardo Algardi (Genova), Mario Costa (Roma), Domenico Paolella (Napoli), Ugo Saitta (Catania) (Anica 1956). Algardi oblitera la centralità di alcuni di questi pionieri per la fondazione e l’organizzazione dei Cineguf: Pasinetti e Paolella su tutti, ma anche Saitta, che fondò il Cineguf di Catania e lo animò fino alla fine degli anni Trenta. L’atto di rimozione è plateale ed esplicito e punta alla salvaguardia di personalità di primo piano nel mondo produttivo e associazionistico degli anni Cinquanta: Algardi inventa una generazione di sapienti “non compromessi”, che dovrebbe non solo garantire il superamento dell’esperienza gufina in virtù del recupero di un’esperienza sublimata e “purificata”, ma addirittura orientare il dibattito sulle pratiche sperimentali passoridottistiche.
Uno sguardo più attento, però, ci rivela che la proposta di Algardi richiama esplicitamente un piano di “ricostruzione istituzionale” – idea evidentemente accarezzata all’interno dell’Anica – già emerso in anni precedenti, che darebbe ragione all’ipotesi di continuità “ideale” avanzata da Laura. Infatti, Algardi accennava già a questa commissione di “pionieri” quando – nei mesi immediatamente successivi alla caduta del regime e al discioglimento dei Cineguf – propose un progetto di ri-organizzazione di un “Cine-club centrale”, altre volte nominato “Cine-club d’Italia”, che aveva l’obiettivo di “riunire le giovani energie provenienti dai disciolti Cineguf ed ambientarli nella nuova organizzazione dei Cine-club” (Algardi s.d.: 2). Infatti, già nei mesi successivi al discioglimento dei Cineguf (le ultime avvisaglie si registrano nell’estate del 1943), si premura di chiarire che “Il cine-club d’Italia è un’organizzazione nettamente apolitica” (Algardi s.d.: 1), per quanto auspichi una rappresentanza dell’associazione all’interno della Camera Internazionale del Film, la cui attività prosegue almeno fino al luglio 1944 (Locatelli 431). Algardi, per la verità, sembra tornare ciclicamente su questa proposta: la documentazione disponibile lascerebbe infatti intendere che il progetto di un “Cine-club d’Italia” sia stato presentato alla Direzione Generale della Cinematografia già molti anni prima, a ridosso della fondazione dei Cineguf, come network associativo “parallelo” a quello dei Guf, con l’obiettivo di includere chi – prima della riforma dello statuto dei Guf nell’era Starace e delle successive modifiche al regolamento del 1936 e 1937 (La Rovere 2003: 179) – per limiti di età, non poteva afferire ai Cineguf (Algardi s.d.-bis: 1). Allora Algardi era esponente del vivace gruppo del Cine-club di Genova (prima dell’assorbimento nei Cineguf), poi l’idea venne ripresa immediatamente dopo la caduta del regime – verosimilmente tra il luglio 1943 e il luglio 1944 – con un comitato di “pionieri” a capo di una organizzazione verticistica nazionale che in larga parte si rifaceva all’esperienza dei Guf22 (in quel momento Algardi era un dirigente del Luce, nel reparto passo-ridotto), ed infine riproposta nel dopoguerra, all’Anica, con l’evocazione di un comitato di pionieri “redenti” (alcuni dei quali – come Pasinetti – per altro defunti).
Tra questi “redenti” Ugo Saitta è una figura interessante ed emblematica, in quanto autore di una vera e propria operazione di “neutralizzazione” del passato cinegufino: è al momento l’unico caso emerso dalle ricerche a manifestare questi caratteri, ma intendiamo riportarlo per la valenza euristica e le evidenze sintomatiche che crediamo diffuse e che dunque possono servire a suggerire ulteriori scavi ed esplorazioni. Saitta è stato regista e produttore, per il Cineguf di Catania, di uno dei migliori cortometraggi indipendenti italiani di animazione a pupazzi dell’epoca fascista: Pisicchio e Melisenda (1939). Il film venne presentato e applaudito alla VII Mostra del cinema di Venezia nel 1939. Il destino del film, oggi conservato dalla Filmoteca Siciliana, testimonia un’implicita eppure efficace operazione di mascheramento di un film del Cineguf. Il film, per come ci è pervenuto oggi, si presenta con titoli e, probabilmente, un doppiaggio non originali: la copia depositata presso la Filmoteca Siciliana risulta essere l’unica e proveniva dalla figlia di Ugo Saitta, Gabriella Saitta. Una prima incongruenza nei titoli è stata messa in luce dal nipote di Ugo Saitta, Raimondo Catanzaro, a margine della proiezione del film avvenuta il 3 novembre 2018 a Bologna, nel corso della rassegna di Archivio Aperto: i titoli della versione della Filmoteca Siciliana attribuiscono la regia a Ugo Saitta, la direzione di produzione a Rita Consoli, sua moglie, la scenografia a Carolina Simeoli, madre di Ugo Saitta, e operatore alla macchina Giuseppe Consoli, fratello minore di Rita Consoli. Tuttavia Catanzaro ci conferma in un’intervista che Rita Consoli nacque nel 1928 e Giuseppe Consoli nel 1929, dunque troppo giovani per partecipare alla produzione del film tra il 1938 e il 1939, inoltre: “Rita e Giuseppe Consoli conobbero Ugo Saitta in un arco di tempo che va dal 1945, data del documentario Nuvola (secondo mia cugina Gabriella Saitta), al 5 luglio del 1950, quando Ugo Saitta e Rita Consoli si recano a Castelvetrano per documentare la morte di Salvatore Giuliano”.23 Effettivamente, con la bobina del film è conservata una scheda dattiloscritta originale di Ugo Saitta, che non riporta i nomi di Rita Consoli e Giuseppe Consoli (Figura 1).
Non solo. Nel 1945 Saitta fonda la sua società di produzione cinematografica, la X Film, e con questa mette in lavorazione il film Nuvola, suo primo lungometraggio di finzione, mai terminato; ma dai giornali locali dell’epoca emerge anche che tra il 6 e l’8 dicembre 1945 il film Pisicchio e Melisenda viene ri-presentato al cinema Lo Pò di Catania (De Filippo 2012: 205) come una produzione “X Film”: è dunque anzi probabile che Saitta abbia coinvolto Rita Consoli nell’avventura produttiva della X Film in quel frangente, e abbia sfruttato il lancio della società per riprendere il film, modificandone i credits, così da inserirvi i nuovi soci e la futura moglie (De Filippo 2012: 45). Non conosciamo il doppiaggio originale dell’epoca – il film è tra i pochissimi sonori delle produzioni di ambiente gufino – né abbiamo una lista dei dialoghi originali, ma non possiamo escludere che il film sia stato anche ri-sonorizzato e forse ri-titolato (viene depositato presso la Filmoteca siciliana con il titolo alternativo di Teste di legno): allo stato attuale gli interrogativi rimangono sospesi.
Si tratta di una forma complessa di silenzio d’archivio – un “riscrittura” che innerva in problemi di ordine filologico questioni di carattere ideologico: questa per la verità ha riguardato anche altri film ben più conosciuti e ha costituito una strategia di conservazione e sopravvivenza di prodotti dell’epoca fascista (quando meritevoli, come in questo caso) sotto mentite spoglie.24
La figura di Saitta ci aiuta a chiarire un altro aspetto dell’ingombrante passato del Cineguf nella storia cine-associazionistica del dopoguerra: come documentato altrove, la centralità di Saitta nell’ambiente cinematografico siciliano lo porta ad essere coinvolto nel direttivo nel neo-fondato Centro Universitario Cinematografico dell’Università di Catania nel 1953 (Asuc 1953).
Con l’obiettivo di una promozione della materia cinematografica nei curricula universitari, i Cuc funzionavano come Circoli del cinema, investendo più nell’organizzazione e promozione della cultura cinematografica e che non nella pratica del passo ridotto: erano strutture afferenti all’Ufficio Cinema dell’Unuri, o Unione nazionale universitaria rappresentativa italiana, che riuniva i rappresentati di tutti gli Organismi Rappresentativi degli atenei nazionali, che a loro volta rispecchiavano le principali correnti politiche nazionali. A differenza dei Circoli del cinema, sostanzialmente di sinistra, i Cuc accoglievano esponenti di varia ascendenza politica e ideologica e fungevano idealmente da campo “terzo” (Fidotta-Mariani 2016: 40) rispetto alla Fedic e alla Ficc (che nel frattempo, nel 1951, aveva subito una scissione interna con la fondazione della Uicc, proprio per ragioni di ordine ideologico e politico). Senza dubbio l’esperienza dei Cineguf è il precedente più prossimo all’azione dei Cuc, ma per ragioni diverse da quelle esposte da Laura per la Fedic: come già sostenuto, “molto più dei Circoli del cinema o dei Cineclub, i Cineguf erano stati, come i Cuc, centri cinematografici universitari e come i Cuc si erano fondati su un sistema di natura federale e verticistico, legato alle sedi universitarie” (Mariani 2019: 344). Inoltre, anche in questo caso sussiste una continuità materiale, infrastrutturale, con il passato fascista, come denunciava nel 1956 Giorgio Festi, socialista, presidente dell’Unione Goliardica Italiana, a proposito del mancato regolamento per la ri-assegnazione degli spazi (a volte vere e proprie salette cinematografiche) dell’ex-Gil e Guf: “è senza dubbio vergognoso – scrive Festi – che dopo oltre dieci anni ancora non si sia regolata la sistemazione del patrimonio della defunta Gioventù italiana del Littorio” (Apice 1956: s.p.). In altre parole, nel corso dei primi dieci anni del dopoguerra, sussiste un problema di assegnazione di alcuni degli ambienti pubblici usati in precedenza per le proiezioni dei Guf o della Gil, che potrebbero essere convertiti a spazi per i Circoli o i Cuc (tendenzialmente i Cineforum avrebbero usufruito degli spazi di proprietà della curia).
Con i primi anni Sessanta ad incrementare la già complessa metabolizzazione del passato si pone una transizione generazionale importante – la stessa che Renzi aveva preconizzato nella stesura del suo soggetto: i nuovi ventenni invocano un cambio di passo. Il caso catanese è nuovamente emblematico. L’enfasi sulla rottura con le passate generazioni e, di riflesso, con l’eredità fascista della cultura italiana, è posta dallo studente Antonino Recupero, che assume la presidenza del Cuc di Catania nel 1963, dichiarando: “I Cuc dovevano risolvere il problema della distruzione del vecchio concetto del circolo ricreativo tipo Cineguf, di spezzare le barriere – poste da una vecchia cultura tradizionale e rese ferree dal fascismo – tra Università e società, tra intellettuali e masse, tra intellettuali e azione politica” (Recupero 1961: 4). Se da una parte, tra la fine degli anni Cinquanta e la prima metà degli anni Sessanta è indubbio un progressivo accentuarsi della politicizzazione dei gruppi associativi (Zambetti 1978: 5), un ritorno del politico dove possiamo rileggere anche il ritrovato sentimento antifascista (soprattutto a cavallo dei due decenni, in reazione alla breve esperienze del governo Tramboni, di centro-destra), dall’altra le parole di Recupero richiamano l’attenzione su un vero cambio di paradigma ideologico. Questo si innerva, significativamente, in un dibattito metodologico. Il Dibattito sui problemi della critica25 che prende forma al convegno di Porretta Terme dedicato a “Cinema e critica” dal 9 al 12 settembre 1963, è un momento importante, che vede al centro Guido Aristarco e Cinema Nuovo (Mariani 2019: 352). Aristarco, Cinema Nuovo e la generazione del neorealismo – che è anche la generazioni del Ventennio – sono giudicati per un metodo critico “inadeguato alla più ampia comprensione della realtà”.26 Il dibattito metodologico esprime quegli “spostamenti progressivi” (Brunetta 1993: 102) dal e attorno al film che rivelano due “posture”, due funzioni della critica rispetto al cinema e rispetto alla realtà (politica, sociale, culturale, storica), due posture sempre più visibilmente incompatibili: la prima, consolidata da decenni, legata al film e al suo statuto di opera;27 la seconda legata al cinema come mezzo di comunicazione, come linguaggio produttore di senso, come apparato culturale, come macchina.28 È una fase importante di germinazione della teoria del cinema in Italia che riflette la centralità del rapporto tra il cinema e la realtà, e – per dirla con Recupero – tra intellettuali e masse, tra intellettuali e azione politica, con due implicazioni rilevanti per il tema di questo saggio: le ripercussioni di ordine teorico, appena descritte e soprattutto quelle di ordine pragmatico, con il posizionamento di una nuova generazione di critici sullo scacchiere culturale e politico.
Conclusioni
Gli anni cinquanta si confermano un decennio cruciale per comprendere tanto le strategie di “rimozione del politico” (Bertetto 1979: 139), quanto le formule di rielaborazione del modello fascista – e della sua eredità materiale – per l’inquadramento dei cittadini nel nuovo ordine di partecipazione culturale e sociale (Ventrone 1996: 110-119). Quello che sembra manifestarsi, poi, verso la metà degli anni sessanta, è la convergenza di vere e proprie scosse telluriche nel campo culturale e politico della cultura cinematografica. Infatti al complesso processo di revisione del Pci, seguito al 1956, va aggiunta la reazione culturale e politica all’esperimento del governo Tambroni del 1960 e le conseguenze del tentativo, successivo, di apertura a sinistra della Dc, con l’approssimarsi delle elezioni del 1963, la scissione interna del Psi e la (ri)nascita del Psiup.
Su questo sfondo si inserisce un ritorno in forza della storia, per quanto lento: se il tema resistenziale è ancora centrale,29 negli anni sessanta matura un ritorno produttivo al periodo fascista con i lavori di De Felice, ma anche con la riflessione metodologica sulla storia del cinema italiano nel periodo fascista, spesso animata da giovani studiosi provenienti dai Cuc, come Giorgio Tinazzi (Tinazzi 1966): sono i prodromi di una nuova sensibilità filologica e storiografica, che prepara il terreno alla riemersione archivistica del cinema del periodo fascista e dei Cineguf.
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La ricerca segue la sua precedente in: La Rovere 2003. Lo studioso ha il merito di aver contribuito grandemente alla ricostruzione dell’apparato documentale di riferimento della storia dei Guf e di Cineguf, insieme a Silvio Celli; per un primo lavoro di sistematizzazione delle imprese cinematografiche gufine si veda A. Mariani, Gli anni del Cineguf. Il cinema sperimentale italiano dai cine-club al Neorealismo, Mimesis, Udine-Milano 2017.↩︎
È di pochi mesi fa la pubblicazione del bel libro di Schwarz 2019.↩︎
Si fa riferimento a Jaspers 1974, poi Jaspers 1996. Su questo punto Mirella Serri ricorda che “puntando il dito sul tema della rimozione, ancora Bobbio, nel settembre del 1946, consigliava a Einaudi la traduzione di Die Schuldfrage, di Karl Jaspers” (Serri 2005: Kindle Pos. 213).↩︎
L’autore passa in rassegna e distingue articolazioni discorsive e accenti diversi che si sviluppano in ambienti e su organi di provenienza varia, dall’area comunista, all’area socialista, cattolica ecc., dai ceti proletari, ai ceti borghesi medi e intellettuali.↩︎
Per una lettura più sfumata: Woller 2008.↩︎
Si fa riferimento ad una distinzione centrale tra cinema fascista e cinema del fascismo o dell’epoca fascista, che è un precipitato fondamentale di quella complessa elaborazione critica e storiografica: Zagarrio, 2004 e Zagarrio 2009. Successivamente Claudio Bisoni ha portato persuasivamente l’attenzione dal tema della propaganda a quello dell’ideologia, insistendo sul “lavoro dell’ideologia” nel campo culturale e produttivo del cinema italiano in quel periodo: Bisoni, 2010. Si veda poi anche Manzoli, 2018.↩︎
Non è ben chiaro, dalla letteratura, dove e se debba cadere la lettera capitale del nome dell’armata: S’agapò, s’Agapò, S’Agapò, s’agapò sono comparsi alternativamente. Rispettiamo in questo frangente la grafia scelta dalla redazione di Cinema Nuovo per la pubblicazione del soggetto: L’armata s’agapò.↩︎
È giusto considerare se non altro la condivisione piena degli atti in questione, oltre che la fondazione della rivista Cinema Nuovo nel 1952.↩︎
Biblioteca Renzo Renzi, fondo Renzo Renzi, manoscritto della lettera al commendator Dino De Laurentiis, s.d.↩︎
Biblioteca Renzo Renzi, fondo Renzo Renzi, dattiloscritto soggetto Il pugnale tra i denti, s.d., p. 1.↩︎
Ibidem.↩︎
Idem, p. 2.↩︎
Renzi in Sciolti dal giuramento dichiara una distanza piuttosto marcata dalla critica di sinistra, parlando di “errori altrui”.↩︎
Si veda anche Lichtner 2013.↩︎
Su questo punto si rileggano anche le conclusioni di Paolo Bertetto sulla serie cinematografica di Don Camillo: Bertetto 1979.↩︎
La più recente e completa ricostruzione è di Brunetta 2015. Si veda anche il resoconto scritto da Renzi stesso: Renzi 2003.↩︎
Si veda poi la sua autobiografia postuma in forma di intervista, Montanelli 2002.↩︎
Il primo lavoro davvero sistematico giunge tuttavia a fine secolo: quello di Tosi 1999.↩︎
Se nell’ante-guerra (pre-Cineguf) l’occorrenza prevalente del termine “Cine-club” prevedeva il trattino separatore, evidenza dell’origine transalpina, nel dopoguerra prevale la formula sintetica, senza trattino, come attestato dal nome dell’associazione che li rappresenta: Federazione Italiana dei Cineclub.↩︎
Ernesto G. Laura, intervista rilasciata all’autore insieme a Giuseppe Fidotta, Roma 11 febbraio 2013.↩︎
Ibidem.↩︎
Il progetto è dettagliato per punti, che vanno dall’organizzazione di un sistema a concorsi, manifestazioni volti a “istituire premi di incoraggiamento” (Algardi, s.d: 3) per una graduatoria nazionale dei cineamatori più virtuosi – sul modello dei Littoriali del Cinema -, ad un accordo organico con il Centro Sperimentale di Cinematografia, ad un accordo “quadro” finalizzato ad ottenere agevolazioni per l’acquisto di materiale pellicolare e di equipaggiamento tecnologico (sul modello dell’accordo Luce-Agfa per l’approvvigionamento dei Cineguf), alla pubblicazione di un notiziario periodo (sul modello del Notiziario delle sezioni cinematografiche dei Guf), ecc.↩︎
Raimondo Catanzaro, e-mail indirizzata a chi scrive il 4 novembre 2018.↩︎
Nell’immediato dopoguerra questa pratica, infatti, era stata percorsa anche per il cinema “maggiore” e con opzioni ben più controverse di “neutralizzazione”, che “si pongono, a posteriori, come casi emblematici di malcelata sopravvivenza postbellica di atteggiamenti ideologici filofascisti” (Baratieri 2004).↩︎
La relazione introduttiva al convegno è di Giuseppe Ferrara 1964.↩︎
Mino Argentieri e la polemica mossa da Cinema60, così come citati a memoria da Aristarco 1964 (170). Il saggio era stato originariamente pubblicato su Mondo nuovo, organo del PSIUP.↩︎
Francesco Casetti ne parla in termini di “teoriche”, riprendendo non casualmente una categoria assunta da Aristarco in un’antologia pubblicata nel 1951 e ristampata nel 1960: Casetti 1979: 77.↩︎
Casetti ne parla in termini di “teorie”: Casetti 1979: 77.↩︎
Su questo tema il primo convegno con rassegna cinematografica è del 1956, a Bologna (“Il cinema postbellico e la resistenza”, Bologna 20-21 aprile 1956), nei primi anni sessanta si segnala per la ricchezza rappresentativa – molte le associazioni e i CUC presenti – “Tendenze attuali del cinema antifascista. Ventennale della lotta di liberazione”, Atti del convegno nazionale di Grugliasco 6-7 luglio 1963, ARCI.↩︎