Premessa
A partire dal 1985 la regista Jennie Livingston, donna bianca cisgender e lesbica, frequenta attivamente gruppi di omosessuali, transgender e transessuali latini e afroamericani abitanti il quartiere di Harlem a New York. Inizialmente la sua ricerca è di tipo fotografico, ma riconoscendo i limiti di espressivi del mezzo opta per un medium più efficace, la macchina da presa. Ciò consente alla Livingston di creare una fonte documentaria multimediale, permettendo agli spettatori di visualizzare una rappresentazione chiara e polimorfa del fenomeno delle ballroom ad Harlem. Alla sua uscita Paris Is Burning (1990) si trovò al centro di accesi dibattiti. Se da una parte si riconosceva l'efficacia del lavoro documentale della Livingston nel mettere in luce una minoranza fino ad allora ignorata; dall'altra veniva fortemente criticata la sua posizione personale nei confronti della realtà rappresentata. In particolare, bell hooks (1992) valuta negativamente la modalità documentaristica adoperata dalla Livingston poiché, in quanto donna bianca ricopre una posizione privilegiata che la porta ad appropriarsi e sfruttare la ball culture, rimediandola secondo il suo capitale culturale ed economico, ben distante da quello della realtà indagata. Kimberly Chabot Davis riconosce che la modalità ibrida adottata dalla Livingston “contributes to a confusion of purpose and point of view” poiché “adopt some of the rhetorical strategies of the formal style, but lack its more overt political purpose”. Sebbene si avvicini stilisticamente al cinema vérité, Paris Is Burning “do not explore the role of the filmmakers in shaping meaning, as the best vérité films try to do” (Davis 1999: 32-33).
Nonostante la complessità nel definire il posizionamento politico della regista, la pellicola dal punto di vista artistico, performativo e musicologico offre un notevole contributo. Paris Is Burning è un valido documento storico in grado di trasmettere informazioni utili per identificare un mondo oltremodo esclusivo, minoritario e invisibile agli occhi dei più. La pellicola, infatti, si inserisce all’interno dei circuiti di cinematografia indipendente, andando a vincere nel 1991 il Gran Premio della Giuria al Sundance Film Festival e divenendo una delle pietre miliari e fondative del New Queer Cinema e del cinema queer mondiale. Insieme a molte altre pellicole appartenenti al “momento” (Rich 2013) cinematografico del New Queer Cinema si fa carico di far luce su una parte di società nascosta e, come nota Daniel T. Contreras (2004: 120), “it offered a more sobering and artistically complicated vision of queer urban life than that offered by many of the other New Queer Cinema filmmakers”.
Infatti, è proprio intorno all’unicità e all’originalità dei fenomeni artistici rappresentati che si sviluppano i discorsi più interessanti. Gli studi di Judith Butler hanno messo in luce quanto la performatività drag in Paris Is Burning sia un fenomeno artistico e politico ambivalente, per la sua presa di coscienza critica nei confronti delle forme egemoniche di potere e, allo stesso tempo, per una tendenza alla loro emulazione. La performatività di genere è da lei intesa in quanto gesto individuale volto a rielaborare e risignificare le “norme coercitive, le quali richiedono che si aderisca a un genere o all’altro (solitamente all’interno di una cornice rigidamente binaria)” e che attraverso la citazione e la ripetizione “possono essere disfatte e rifatte in modi inattesi, aprendo così la possibilità di ricostruire la realtà del genere lungo nuove direttrici” (Butler 2017: 78).
Le ripetizioni di forme egemoniche e le varie pratiche risignificanti vengono applicate in Paris Is Burning su diversi fronti sociali, culturali, familiari ed economici. Un chiaro esempio è l’organizzazione familiare interna alle houses in cui omosessuali, transgender, transessuali latini e afroamericani trovavano rifugio come children di legendary mothers (o fathers). I protagonisti di Paris Is Burning, durante le interviste, rivelano le condizioni di estrema povertà in cui versano, a causa dell’esclusione sociale e familiare. In tale contesto, diviene fondamentale il ruolo delle ‘madri’, donne transgender, transessuali, drag queen, che si facevano carico di allontanare dalla strada, dalla malavita e dalla prostituzione giovani ragazzi senza fissa dimora.
Le strutture familiari e le relazioni di parentela generate dalla ball culture sono anch’esse performative poiché,
possono essere interpretate come ripetizioni di forme egemoniche di potere che mancano di fedeltà e, in virtù di questa loro mancanza, aprono diverse possibilità di risignificare i termini delle violazioni poste in opposizione ai loro intenti violatori (Butler 1996: 126)
La risignificazione è estesa anche alla scelta dei nomi delle houses. I nomi servivano per definire la ‘famiglia’, poiché, gli stessi componenti ereditavano il nome della house come cognome, ripetendo un classico modello di filiazione patriarcale ed eterosessuale. I nomi con cui le houses si definiscono sono determinanti all’interno del processo di soggettivizzazione, poiché grazie a un processo di ripetizione lessicale e performativa agevolano la strutturazione della propria identità. Inoltre, il senso di appartenenza che si sviluppava intorno al nome acquisito era una profonda fonte di orgoglio per mothers e children, sia internamente alle houses che durante le sfide nei ball. I ball erano competizioni serrate tra houses, svolte in presenza di una severa giuria e di un presentatore di sala, l’MC. Questo, con argute frasi iconiche, scandiva il tempo delle ‘sfilate’ e richiamava o sbeffeggiava i partecipanti attraverso la Reading: una tecnica di derisione, creativa e sagace, condivisa dai walkers e basata sulla ‘lettura’ dei difetti fisici ed estetici della persona da attaccare.
Nelle sfide che, come evidenzia Peggy Phelan, “are opportunities to use theatre to imitate the theatricality of everyday life” (Phelan 1996: 98) i vari membri delle houses potevano esibire, attraverso il travestimento, le loro migliori doti nel modellare il proprio atteggiamento, l’abito, la camminata, la posa, in funzione delle categorie rappresentate. Alcune delle categorie presenti in Paris Is Burning sono: High Fashion, Body, Butch Queen, Banjee, Schoolboy/Schoolgirl Realness, Femme Realness Queens, Executive Realness.
La Realness è un tema chiave abilmente trattato e sviluppato nel docufilm. Come suggerisce Judith Butler, “non è propriamente una categoria in concorso, è piuttosto uno standard usato per giudicare ogni data esecuzione entro le categorie stabilite” (Butler 1996: 119). “Realness” significa personificare, il più fedelmente possibile, un ‘personaggio’, un tipo di categoria già esistente ed accettata nella società. Dare un senso di realtà al proprio fare attraverso il travestimento, stando lontani dalla parodia, adattando il tono, facendo scemare la posa; la maschera deve diventare volto proprio di chi la indossa. Più gli sfidanti dimostravano di ‘possedere’ le categorie rappresentate, più potevano essere definiti ‘reali’.
Judith Butler, che si interroga a lungo sull’utilità e l’efficacia della performance drag in Paris Is Burning, sostiene che “la performance funziona, produce realtà, nella misura in cui non può essere letta […] L’impossibilità della lettura significa che l’artificio funziona, l’approssimazione del reale sembra raggiunto, il corpo recitante e l’ideale recitato paiono indistinguibili”.
Tuttavia, secondo Jean Baudrillaurd (1981) il concetto di ‘reale’ è ampiamente superato all’interno della società massmediale, completamente immersa nell’iperrealtà. In essa i confini tra realtà e simulacro non si riconoscono più; la simulazione non trova referenza se non in se stessa rendendo impossibile l’accesso alla realtà originaria, persasi all’interno di un domino di rappresentazioni. L’iperrealtà, definita in Paris Is Burning attraverso le immagini sulle riviste, i poster nelle case, le pubblicità, ‘ossessiona’ i membri delle houses, divenendo modello di inesauribile confronto e scontro. Ciò li rende ambivalenti vittime e oppositori di forme egemoniche di potere poiché, la realtà a cui ambiscono, visualizzata nella classe media borghese, eteronormata e bianca, è essa stessa una rappresentazione.
In Paris Is Burning, la ricerca bulimica di perfezione, bellezza e coesione con i modelli individuati come ‘ideali’, spinge gli insiders a performare il genere con tutti i mezzi a disposizione. Persino il furto, definito “Mopping”, era considerato lecito ai fini della vittoria delle competizioni e del raggiungimento della Realness.
1 Resilienza musicale, l’esempio della disco music
Già da una prima analisi è possibile comprendere il valore resiliente dell’elemento musicale presente in Paris Is Burning. Si può definire “resiliente” perché, oltre a generare, strutturare e accompagnare l’atto performativo, agevola il processo di aggregazione collettiva, intensificando il senso di partecipazione internamente alle ballroom. Intorno alle boombox, agli impianti audio lo-fi presenti nelle sale, si produce il simulacro di un focolare domestico, che attira a sé la comunità, allontanandola dalla solitudine e rendendola parte di un progetto collettivo.
La comunità rappresentata in Paris Is Burning appare legata a un certo tipo di musica lontana da stereotipi di genere imposti dal privilegio eterosessuale, un esempio multiculturale, frutto di un incontro tra la comunità nera e quella omosessuale, e trans-genere: la disco music, in alcune delle sue successive evoluzioni.
In particolare, l’utilizzo del termine “trans-genere” è riferito all’inclusività della musica disco, alla sua natura “sexualized and gendered” (Frank 2007: 302), alla sua capacità di superare il binarismo “bianco-nero”, “maschile-femminile”. I corpi all’interno della discoteca e, nel caso di Paris Is Burning, delle ballroom, vengono chiamati alla performatività dal ritmo serrato dei brani e dalla ripetitività di incisi testuali a-gender presenti in essi, “usually strive only to translate the rhetoric of the beat into simple imperatives: ‘Got to keep on dancing, got to keep on making me high’; ‘My body, your body, everybody work your body’; ‘Come on come on get busy, do it, I want to see you party’” (Hughes 1994: 149). La ripetizione di tali incisi rende i testi dei brani vacui, vuoti di senso e subordinati all’elemento ritmico. Come evidenzia Hughes (1994: 149), “In the discotheque, the”disco-text" strives to shake off all remnants of this own textuality, to become pure, unconstructed, undifferentiated discourse, this purity being another expression of its unmediated power to stimulate dancing" e in Paris Is Burning, “to stimulate walking”, rendendo i corpi “slaves to the rhythm”. Come spiega Hughes,
the rhythm regulates every aspect of bodily existence, breathing, dancing, labor and sex, and so becomes a universalized disciplinary apparatus: “you learn to the rhythm and you live to the rhythm.” But by submitting to it, the disco dancer begins to lose his social identity as a man (Hughes 1994: 149).
Richard Dyer (1979: 21), ponendo a confronto la disco music con la popular music, osserva che, “disco is insistently rhythmic in a way that popular song is not”. “Popular song's tunes are rounded off, closed, self-contained”, in una struttura (AABA) che riproduce le aspettative dell’ascoltatore, risolvendo sul finale (A) la tensione armonica e melodica creata nella sezione centrale (B). Tale struttura metrica garantisce “a sense of security and containment”, che contrariamente la musica disco non può assicurare. La struttura metrica aperta della disco music subordina il dato lessicale e la corporeità alla potenza soggiogante del beat e delle ridondanti linee di basso.
Sebbene Dyer (1979: 22) riconosca nella musica rock un primo tentativo di erotizzazione del corpo, “when rock 'n' roll first came in, this must have been a tremendous liberation from popular song's disembodies eroticism — here was a really physical music” ma sottolinea quanto “it was about — cock”. Contrariamente, la musica disco “restores eroticism to the whole of the body and for both sexes, not just confining it to the penis”.
La musica disco, fortemente criticata per essere “mindless” e “repetitive” (Hughes 1994: 147), è esibita dai media “as sexually liminal and threatening because it undermined gender differences and, by implication, heterosexuality” (Frank 2007: 296). La ridiscussione del primato eterosessuale spinse una larga parte dell’industria discografica rock e del suo pubblico a promuovere il fenomeno della “Disco Sucks”, il quale “enabled the broad demarcation of heterosexual and homosexual cultures and gendered behaviors through popular music” (Frank 2007: 279). Il fenomeno della “Disco Sucks”, “recalls the Nazi book burnings, or the exhibitions of Degenerate Art” poichè “impelled by a similar disgust: the belief that disco was rootless, inauthentic, decadent, a betrayal of the virile principles of the true American volk music, rock ‘n’ roll” (Reynolds 2012: 118).
Ma non solo, nel 1979, nel tentativo di eliminare per sempre la disco music dall’industria discografica, Steve Dahl inscena la Disco Demolition Night. Il DJ di Detroit, convinto della supremazia musicale del genere rock, riunì, allo stadio di Comiskey Park a Chicago, una folla di dimensioni di gran lunga maggiore a quella abituale; chiedendo agli spettatori di portare un 45 giri da distruggere. La rivolta guidata da Dahl si trasformò in una distruzione senza controllo, divenendo un pretesto per bruciare una quantità inimmaginabile di dischi, spesso neppure appartenenti alla disco music, ma solo relazionabili alla cultura gay e a quella nera. Manifestazioni d’odio di tale portata, tra razzismo e omofobia, giustificano il going underground che hanno dovuto subire certi gruppi sociali e certi fenomeni artistici e culturali. Come sottolinea Gillian Frank (2007: 306), “Following the Disco Demolition, gay men were no longer collectively visible in popular music and nightlife, and by April 1980 popular music had been reclaimed […] by straight white and male rock fans”.
Ciononostante, come sottolinea Walter Hughes (1994: 148), la musica disco è essa stessa resiliente e ‘rivive’ fino a quando perdura la cultura del clubbing,
As long as people go out to clubs and dance to recorded music, therefore, disco lives, even if it is never ‘live’. This definition dispels the rumors of disco’s ‘death’ in the early eighties; disco is electronic dance club music and as such it may be revived by infusions of rock, new wave, punk, Hi-NRG, hip hop, house and techno-rave, but it nevertheless retains its generic continuity. Revival is both its project and its method.
La sfera musicale rilevata in Paris Is Burning è legata ad una delle evoluzioni della musica disco, sviluppatasi tra gli anni Settanta e Ottanta intorno alla scena underground presente tra New York e Chicago: l’UDM (Underground Dance Music),
As much as underground dance music is referred to as music for or by gays, or blacks and Latinos, or both, its culture is simultaneously related to African-derived expressive culture and gay culture […] the majority of the music played by DJs at underground dance clubs is identified as house, which has its roots in the black gay scene of urban Chicago during the late 1970s and early 1980 (Fikentscher 2000: 13).
Anche Simon Reynolds (2012: 119) riconosce il vitale legame tra le minoranze e la scena house di Chicago, “Chicago house music was born of a double exclusion, then: not just black, but gay and black”, duplice esclusione e discriminazione a cui vengono sottoposti anche i protagonisti di Paris Is Burning.
La soundtrack in Paris Is Burning è frutto di tali incontri culturali, in una perfetta fusione tra groove black e sound queer. È composta da tracce quali “I'll House You”1 dei Jungle Brothers, “Let No Man Put Asunder”2 delle First Choice, “Sweet Dreams (Are Made of This)”3 degli Eurythmics, “Is It All Over My Face”4 dei Loose Joints nella versione vocale femminile e, ancora, “Move Your Body”,5 presentissima traccia house di uno dei più importanti DJ del panorama underground di Chicago, Marshall Jefferson. Un altro brano celebre il cui titolo è esemplificativo del messaggio che si vuol trasmettere è “Love Is The Message”,6 nel remix di Danny Krivit, una traccia divenuta parte della storia della disco music mondiale che, grazie al suo funky groove dato da un ridondante riff di basso, rende le performance iconiche. Questa traccia funge da leitmotiv per accompagnare scene di performance in cui è plausibilmente complesso, dato il rumore di fondo, registrare in una buona qualità il dato musicale originale.
Il documentario, nonostante esibisca un contesto profondamente segnato da povertà, marginalizzazione, AIDS, omofobia, razzismo e violenza, risulta carico di slanci positivi soprattutto grazie alla presenza di brani appartenenti all’UDM, tra house music e HI-NRG. Tali generi per loro stessa natura hanno un élan vital maggiore rispetto ad altri generi musicali, se non altro per il groove e l’alto numero di battiti per minuto, tra i 120 bpm della house music e i 140 della HI-NRG. Marshall Jefferson, intervistato nel documentario I Was There When The House Took The World (2017), definisce l’importanza del groove per la creazione musicale delle maggiori tracce di musica house, “we weren’t musicians, we weren’t songwriters, […] I don’t think the songwriting was there, we have focused on the groove, we had great grooves and that’s what we did”.7
Ed è proprio il groove, nel suo up-tempo, a restituire nello spettatore un effetto cinetico e patemico, risultato peraltro tipico dell’inserimento di popular music nella musica per film (Corbella 2014: 116);
il film è in grado di rifornire l’embodiment sonoro di immaginario narrativo e, al contempo, di attivare in esso una modalità autoriflessiva senza tuttavia perdere gli elementi di ‘piacere’ fisiologico a esso connessi: dal momento che al cinema, salvo casi eccezionali, lo spettatore non si muove né tanto meno danza, questi in un certo senso ‘sublima’ le proprie sensazioni fisiologiche sotto forma di immaginazione.
2 Luoghi e spazi sonori a confronto
Alla vitalità, ricca di musicalità e senso di appartenenza insita nelle ballroom, viene contrapposta la realtà cittadina, identificata dai protagonisti di Paris Is Burning con la classe agiata, borghese e bianca e presentata dalla Livingston come una macchina incessante di rumori bianchi, artificiali e indistinti. In quanto “non-luogo”, non permette ai partecipanti dei balls di godere di visibilità e sicurezza, anzi, nega la loro identità marginizzandoli, discriminandoli e facendoli divenire invisibili. È solo lo spazio aggregativo delle ballroom a garantire la massima visibilità, un’iper-visibilità, in cui ogni walker immerso in un accompagnamento musicale, unito agli spit dell’MC e alle urla del pubblico osservante e partecipante, può finire al centro dei riflettori e godere del suo momento di gloria e orgoglio, tra libera espressione di sé e Realness.
Il going underground, successivo ai fenomeni di massificazione d’odio nei confronti della comunità omossessuale e nera, non è una negazione di esistenza, ma un segno di resistenza e di riorganizzazione della comunità. Ciò ha promosso la creazione di gruppi coesi e resilienti, che potevano “play itself out in the nightclub”. Club privati come il Loft, il The Gallery, i Continental Baths e il Warehouse, vennero creati lontano dalla luce del sole, per tutelare le minoranze e i gruppi di insiders che amavano generi musicali lontani dalla norma. Come evidenzia Fikentscher (2000: 6-7), “On the dance floor of an underground dance venue, away from the scrutinizing eye of society, a vision of an alternative and more egalitarian society can be pursued, tested, revised, experimented with”.
Tale propulsione edonistica e utopica era presente anche all’Imperial Elks Lodge, una ballroom situata al “160 West 129th Street”8 che, all’interno delle sue mura e della sua sala essenziale nel mobilio, garantiva a giovani omosessuali, transessuali, transgender di costruirsi un nuovo spazio sicuro in cui divenire chiunque volessero essere, assicurando un costante clima di protezione familiare. Come evidenzia Judith Butler (1996: 126),
[…] ciò che noi percepiamo della loro vita è in stretto rapporto al locale da ballo. Sentiamo quali sono le diverse modalità impiegate dalle varie ‘case’ per prepararsi al ballo, vediamo scene di taccheggio, e vediamo la differenza tra coloro che entrano nel locale come uomini, coloro che si travestono nell'ambito del locale, coloro che sono sempre travestiti, nel locale e per la strada, e, tra i travestiti, coloro che rifiutano l'idea di diventare transessuali e coloro che lo sono, a vari livelli. Ciò che diventa chiaro nella descrizione del sistema di parentele che circonda il locale è non solo che le ‘case’, le ‘madri’ e i ‘figli’ costituiscono la struttura del locale, ma che il locale da ballo è esso stesso l'occasione per costruire un insieme di relazioni di parentela che guidano e sostengono coloro che appartengono alle case contro i pericoli della dislocazione, della povertà, di restare senza casa.
La spazialità, la divisione dei luoghi, i confini, sono per Paris Is Burning concetti chiave, poiché definiscono quali luoghi siano spazi comunitari e quali individuali, quali luoghi siano ‘sicuri’ per la e quali siano ‘pericolosi’, potenzialmente violenti, e appartenenti alla classe dominante bianca, eterosessuale e cisgender. Superare il confine è sinonimo di passaggio, momento transitorio per la costruzione dell’identità. Questa si rafforza negli spazi collettivi delle ballroom divenendo iper-reale, si forma nello spazio individuale, e si dissolve negli spazi cittadini. Nel definire lo statuto di liminalità rappresentato nel docufilm, la musica svolge un ruolo determinante in quanto sottolinea la contrapposizione tra la “fantasy of the ballroom” e la “the reality of the street” (Hilderbrand 2018: 37). L’elemento musicale si presenta da subito in quanto parte del ‘tempo della performance’, e non di quello della riflessione, come scatola sonora della collettività, ma non dello spazio individuale; è appena presente sui marciapiedi adiacenti alle ballroom, ma è un’esplosione colorata internamente a queste.
Già dai primissimi secondi di girato è percepibile questa capacità della musica di farsi non solo tempo, ma anche spazio fisico e liminale. Dopo la didascalia “New York 1987”, che anticipa il titolo del film, vi sono una serie di frammenti notturni della città; l’inizio musicale è sincronizzato con l’inquadratura di un gigantesco led a scorrimento che annuncia l’inizio della conferenza nazionale della chiesa per la supremazia bianca, il brano è “Silent Morning”9 di Noel. La linea melodica si mischia con le voci della gente per strada, viene individuata una collettività, i 116 bpm si sincronizzano con gruppi afroamericani e latini che ballano sul marciapiede.
Sfumato il primo brano, si susseguono rapide scene di nightlife e si aprono le porte della ballroom Imperial Elks Lodge ad Harlem, New York. La macchina da presa è ancora distante e capta a stento la musica in sottofondo; con uno stacco di montaggio, su sfondo nero, si staglia il titolo del documentario, il brano in rapido crescendo, si fonde con le urla di incitamento della folla che aspetta l’arrivo della diva. L’ingresso della star nella sala da ballo è una metaforica introduzione dello spettatore al mondo delle ballroom (Hilderbrand 2018: 38). (Figura 1)
Quando Pepper Labeija varca la soglia i cori e la musica esplodono e si uniscono alla voce dominante dell’MC che urla al microfono: “Get off the floor. Get off the floor. Learn it and learn it well”. Sui quattro quarti della drum machine, Pepper Labeija, ‘madre’ della casa Labeija, compie la sua sfilata.
La costante presenza dell’MC, il Master of Ceremonies, una delle quattro arti dell’hip hop, scandisce il tempo delle gare e delle esibizioni, lancia i brani, annuncia gli sfidanti, presenta gli spettacoli e, sovrapponendo la sua voce sul beat dei brani, incita i concorrenti esaltando il flow musicale. Si pensi che una categoria di sfida nelle ballroom era Commentator vs. Commentator: i Maestri di Cerimonia si sfidavano a un beat to beat, per conquistarsi la conduzione della serata. Ed è sullo stile beat to beat che l’intero discorso filmico si sviluppa grazie ad un montaggio rapido e incisivo, facendo susseguire scene di vita notturna a campo lungo, a momenti di intervista resi attraverso forti close-up sui volti e sui corpi dei protagonisti.
In più punti è difficile comprendere dove sia collocata la fonte sonora, se sia frutto di sound design o se sia in presa diretta, diffusa a tutto volume da qualche impianto audio presente nelle ballroom. Alcuni brani “can transcend or blur the zones of onscreen, offscreen, and nondiegetic”, tra cui il già citato “Silent Morning”, e perciò possono essere definiti “On-the-air sounds” poiché “usually situated in the scene's real time, enjoy the freedom of crossing boundaries of cinematic space” (Chion 1994: 76-77).
Anche la localizzazione delle voci è complessa: le interviste si spostano frequentemente fuori campo, le voci diventano over e narranti, il suono non è più visualizzato all’interno del campo visivo ma diviene “acusmatico” (Chion 1991: 33), rompendo la corrispondenza tra ciò che si vede e ciò che si sente. Secondo Lucas Hilderbrand (2018: 39) “the frequent use of interviews acousmatically” crea un effetto di straniamento e disembodiment che non permette il riconoscimento della fonte sonora. È solo grazie al processo di “deacusmatizzazione, ovvero il momento in cui viene mostrato il personaggio che parla” (Chion 1991: 38), che è possibile riconoscere e familiarizzare con il volto della voce narrante.
Per quanto riguarda i brani musicali presenti in Paris Is Burning, essi possiedono una loro spazialità propria e definita. Come rappresentato in Figura 2, gli ambienti sonori e musicali presenti all’interno della pellicola possono essere tripartiti.
Un primo spazio sono le ballroom, un secondo spazio le case, o, ancor meglio, le stanze degli insiders, un terzo ed ultimo spazio è quello esterno, della città. La musica sembra cristallizzarsi unicamente negli ambienti comunitari di aggregazione, nelle ballroom, nei locali, sui marciapiedi adiacenti ad essi e sul lungomare. Nella città invece, negli spazi comunitari prettamente bianchi e medio-borghesi rappresentati dalla Livingston, tutto è caotico e inconsistente nel suo essere caos; le parole si perdono nell’indistinto brusio di fondo, tra clacson di automobili, i ronzii dei neon e il traffico cittadino, in un perpetuo rumore bianco. Parallelamente, dentro le case, nei camerini, lo spazio individuale risulta svuotato, si aprono le porte all’introspezione e risuonano le voci degli intervistati che compiono lucide riflessioni sulle ballroom, le houses, la loro relazione con esse e il rapporto di subordinazione alla società dominante. Sono queste consapevolezze a rendere più cupi gli ambienti individuali e più attraenti e felici quelli collettivi, poiché “Lo spettacolo rappresenta una vita di fantasie piacevoli, [mentre] le vite fuori dal locale sono la ‘realtà’ dolorosa che lo spettacolo sfarzoso cerca di superare in maniera fantasmatica” (Butler 1996: 126).
Quando la Livingston si concentra sui protagonisti, permettendo anche alla narrazione filmica di evolversi e svilupparsi in nuove sequenze, la musica si dissolve completamente; le fonti sonore sono le voci dei protagonisti. Tale tipo di annullamento musicale, ma non sonoro, innalza il valore delle parole pronunciate, che divengono gravi e solenni, ma sempre cariche di desideri e speranze per il futuro, soprattutto per quanto riguarda i children. All’interno delle case, i volti, nonostante la migliore luminosità, appaiono riflessivi e pensosi, il tono frequentemente si fa sommesso tra nostalgia e tristezza, rimarcando tutte le difficoltà del ‘vivere la strada’ e ‘vivere la notte’. Il formato dell’intervista, in cui gli insiders hanno ben chiaro cosa dire e come dirlo, permette alla Livingston sia di approfondire le personalità dei singoli sia di sviluppare nuove tematiche, grazie alla peculiare terminologia da loro usata.
Come individua Hilderbrand (2018: 39), “Throughout the film, interview commentary acts as a sound bridge between images of different times and places, making connections between major themes and people, and propelling the narratives forward”.
L’intervista, di impronta tipicamente documentaristica, sebbene non vada ad esplorare ed analizzare le storie e le vite precedenti dei protagonisti, ma solo il loro ruolo attorno e internamente alle ballroom e alle houses, agevola la creazione di nuovi fili logici e concede allo spettatore di ‘entrare e visitare’ il mondo degli insiders.
3 Spazi urbani, spazi musicali e spazi di realtà: la Realness
Tutti potevano vedersi e sentirsi rappresentati durante i balli, o addirittura partecipare in quanto concorrenti, poiché le categorie erano inclusive e pressoché illimitate. Ciò che definiva una buona performance non era la corrispondenza tra il genere biologico e il genere corrispondente al modello prescelto, ma un insieme di fattori legati al comportamento, all’atteggiamento e alla capacità di lavorare a tutto tondo sul proprio personaggio. Ogni aspetto doveva essere attinente e autentico: l’abito, la camminata, lo sguardo e persino la scelta musicale d’accompagnamento alla sfilata. Ne è un esempio la presenza dell’aria “Marcia Trionfale”10 tratta dall’Aida per guidare il ball di uomini in vestiti militari e dirigenziali, dallo sguardo fiero e concentrato. Per quanto sia difficile comprendere se il brano sia diegetico o extradiegetico, la sua presenza è plausibile internamente alla ballroom, poiché funge da raccordo tra la rappresentazione e la realtà imitata, interpolando immagini di sfide interne alle ballroom a riviste e scene di vita quotidiana di stereotipata ricchezza ‘bianca’. Tale scelta musicale si rifà, ovviamente, ad un patrimonio culturale assente nella sottocultura delle ballroom, ma, piuttosto, ripreso e ispirato alla classe media borghese e bianca. In accompagnamento, la stessa voce narrante, subito dopo il grido “O-P-U-L-E-N-C-E” dell’MC, recita “This is white America […] That is everybody's dream and ambition as a minority to live and look as well as a white person is pictured as being in America”.11
Tale ‘ripetizione della realtà’, nel tentativo di apparire come la rappresentazione della società borghese americana bianca, è un fenomeno chiave per la lettura sociologica, filmologica e musicologica di Paris Is Burning. A livello audiovisivo, è intorno alla tematica della Realness che si snoda l’esperimento meglio riuscito di raccordo.
In più casi, all’interno del documentario, si nota che i brani selezionati sia dagli insiders, che nel lavoro di post-produzione, fungono da sottotesto per la narrazione; l’esempio più evidente è l’inserimento del brano “Got To Be Real”12 di Cheryl Lynn. È su questo brano che viene presentato ed esplicitato il concetto di Realness, poiché, attraverso una voce over che funge da narratore onnisciente, viene alternata la canzone della Lynn a cui, alla chiusura della frase cantata “what to know ah, to be real” corrisponde una slide con sfondo nero che presenta la già citata e nuova sezione narrativa, intitolata “Realness”. (Tabella 1).
Il titolo del brano anticipa il tema. Sulle note della canzone della Lynn la voce di Dorian Corey, mother, spiega meglio “If you can pass the untrainedeye, or even the trained eye, and not give away the fact that you're gay, that's when it's realness”13 e ancora “the idea of realness is to look as much as possible like your straight counterpart”.14
Ciò che fa cantare allegramente a Brooke Xtravaganza “i am what i am, i am my own special creation”15 è la sua realizzazione personale in quanto donna transessuale, operata, che ha compiuto il ‘trapasso’ che le permette d’essere “free as the wind that's blowing out on this beach”, di vivere gli spazi ameni della città senza paura alcuna perché ha finalmente “close the closest door”.16 Ciò che Brooke rappresenta, insieme ad altre ragazze presentate in Paris Is Burning, tra cui Octavia Saint Laurent, è ciò che Dorian Corey chiama “Femme Realness Queens” dichiarando “When they're undetectable, when they can walk out of that ballroom, into the sunlight and onto the subway, and get home and still have all their clothes and no blood running off their bodies, those are the Femme Realness Queens”.17
L’incessante gioco di specchi si dimostra non essere in se stesso un adattamento negativo alla realtà, bensì una presa di posizione e di coscienza sugli attributi di genere assegnateci dalle norme sociali, culturali e legislative. Le norme di genere, convenzionalmente attribuiteci dalla nascita, vengono, all’interno delle ballroom ‘queerizzate’ e performate al di là di ogni costruzione strutturale e gerarchica; “The drag balls denaturalize gender by demonstrating that gender can be performed by any body of any sex” (Hilderbrand 2018: 56).
Peggy Phelan associa a questo desiderio di Realness il concetto di iper-visibilità, “the walkers employ the hyper-visibility of the runway to secure the power and freedom of invisibility outside the hall” (1996: 93). Delinea inoltre, quanto siano ‘reali’ le performance dei walkers rispetto alla rappresentazione su celluloide della classe media bianca,
But realness has become such a fluid term that these heterosexual white couples seem exceptionally artificial. In fact, these couples appear to be more “unreal” than the walkers because they remain unaware of the artifice that the walkers have made hypervisible. […] Surrounded by masks, the “natural” appearance seems like the most effective illusion (Phelan 1996: 103-104).
Come suggerisce nel suo testo, ciò che accade internamente alle ballroom non è rintracciabile anche all’esterno di esse. Seppur il travestimento, dato dalla Realness espressa ai suoi massimi termini, permettesse loro di confondersi, internamente al contesto delle ballroom, con la fetta di società che si auspicavano di rappresentare, tra le strade di New York, donne e uomini transgender, drag queen, omosessuali, afroamericani e latini non possedevano la libertà di manifestare la propria esistenza. Dorian Corey spiega,
In real life, you can't get a job as an executive unless you have the educational background and the opportunity. Now, the fact that you are not an executive is merely because of the social standing of life. That is just the pure thing. Black people have a hard time getting anywhere and those that do are usually straight. In a ballroom, you can be anything you want. You're not really an executive, but you're looking like an executive. And therefore, you're showing the straight world that “I can be an executive”.18
L’unico momento in cui i walkers si dimostrano reali, incarnando i loro reali sé, senza maschera alcuna, tornano ad essere visibili, presenti, in tutti i loro volti e racchiusi nella maschera più reale, quella del sé. È in quel momento che i protagonisti si rivelano, in tutta la loro onestà, sofferenza e dolore, mostrando agli occhi della videocamera le loro famiglie e i loro contesti sociali, permettendo l’ingresso allo spettatore nei loro spazi privati. La stessa Pepper LaBejia che nella prima sequenza sfila fiera di sé, osannata dalle urla dei children presenti nella ballroom, nel momento di intervista individuale rivela un contrastante imbarazzo nel descriversi. Nascondendo il volto dietro la sua mano, nel silenzio tutt’intorno, si presenta.
Ciò che se ne può dedurre è un ulteriore scambio dialettico tra suoni, spazi e ‘gradi di realtà’ (Figura 3) poiché la potenza della musica disco, presente nelle ballroom è atta a garantire un’ipervisibilità ai e alle walkers e ai ballerini, si contrappone ad un secondo momento di visibilità, in cui i protagonisti si presentano per quello che sono, senza negare il loro capitale economico e culturale. Un ultimo momento è quello della strada, della città, dei marciapiedi in cui il suono e la musica dei club si odono come lontani e offuscati dall’andirivieni della popolazione frenetica della Grande Mela. Chi vive nelle ballroom di notte e di giorno nelle houses, diviene invisibile nel momento in cui varca le porte e torna per strada. Il brusio di fondo, camera sonora di un grande niente, rende i soggetti ancor più spersonalizzati, esclusi da un mondo esclusivo; tale effetto è iperbolizzato anche dai rapidi movimenti di macchina della Livingston, che inquadrano tutto ma non mostrano niente, non rivelando nessuna identità in tutta la sua essenza.
Tuttavia, vi è un momento in cui questa tripartizione di visibilità si appiana. Sul finale della pellicola, la Livingston va al molo, luogo di aggregazione e prostituzione, dove trova, nel suo abito bianco stirato, Venus Xtravaganza, donna transgender. Nelle ultime sezioni del docufilm, il tono si incupisce. Successivamente alla presentazione di un gruppo variegato di volti e voci, speranzose per il futuro, la macchina da presa, dopo una rapida occhiata al pontile, punta dritta verso Venus Extravaganza che sul pontile, al tramonto, si prepara per un’altra notte di prostituzione. Vicino a lei una boombox suona un mid-tempo electro-soul, “Another Man”19 di Barbara Mason, cortocircuito patemico e presagio di una triste sorte, poco dopo morirà per mano di ‘un altro uomo’, strangolata in un hotel del centro. Alle parole “Oh, child…” corrisponde una delle ultime inquadrature della ‘figlia’ più amata nella ‘casa Xtravaganza’.
Venus Xtravaganza, alzando il volume del suo boombox, decide di superare il confine tra invisibilità e visibilità. La musica, dapprima lignaggio esclusivo delle ballroom, diviene di tutti e si diffonde per tutto il Christopher Pier. Il momento in cui il volume aumenta e la musica comincia ad udirsi fuori dagli usuali spazi di aggregazione chiusi fra quattro mura, metaforicamente Venus Xtravaganza sfida il confine, la liminalità, portando la vera sé, pre-operazione, nella città, tra le strade, con la sua musica e la sua Femme Realness. Tale momento di ribellione al confine, al margine, è purtroppo però indice di ancor troppa fragilità, rivelata nel momento in cui Venus Xtravaganza, children della “casa Xtravaganza”, viene trovata riversa in un hotel del centro.
Peraltro, il brano “Another Man” si può leggere metaforicamente in due sensi, uno è quello precedentemente estrapolato ed un secondo riguarda la mancata operazione per il passaggio di genere da parte di Venus Xtravaganza. Ella, seppur riconosca il suo genere in quello femminile, manca ancora del passaggio più “violento”, come lo definisce Peggy Phelan (1996): la perdita del membro maschile, la castrazione, l’affronto definitivo al mito americano. L’assenza della castrazione definitiva definisce quanto sia complessa la sfida alla legge della norma, l’egemonia ha la meglio, tanto da spingere Judith Butler a sostenere che,
[…] quando Venus esprime il suo desiderio di diventare pienamente donna, di trovare un uomo, avere una casa in periferia in lavatrice, possiamo legittimamente chiederci se la denaturazione del sesso e del genere che mette in atto non si conclude in una rielaborazione della struttura normativa dell'eterosessualità. La penosità della sua morte alla fine del film suggerisce, inoltre, che limiti sociali alla de-naturazione sono crudeli e letali. Per quanto lei attraversi il genere, sessualità e razza in maniera performativa, l'egemonia che riscrive i privilegi delle norme insite nel femminile e nell'essere bianchi esercita il potere finale di ri-naturalizzare il corpo di Venus e cancellare l'attraversamento precedente, una cancellazione che significa la sua morte. Naturalmente il film riporta Venus alla visibilità, anche se non alla vita, creando una sorta di performatività cinematografica (Butler 1996: 122-123).
Di fatto, la stessa Venus è indicata dalla norma come un “another man”, fluidamente tra i generi, ma con un incompiuto ‘trapasso’ verso il suo sogno, divenire una “spoiled rich white girl” al pari di quelle rappresentate sulle copertine delle riviste e ‘mostrate’ dalla Livingston, poste in rapporto dialettico con la realtà delle ballroom.
She died because she though if she were a beautiful woman, a man might love her. But that’s against all the rules. Zeus to Paris: the golden apple is always given by men to other men (Phelan 1996: 111).
4 Eredità attribuibile a Paris Is Burning
Contrariamente alle profonde critiche ricevute, dal punto di vista musicologico il lavoro della Livingston testimonia un’ottima conoscenza del contesto rappresentato, valorizzato attraverso il montaggio audiovisivo. Il mosaico musicale presente in Paris Is Burning permette una mappatura a tutto campo degli ambienti collettivi e del multiforme universo artistico e performativo creato dagli insiders del mondo delle ballroom; definendo un’importante eredità utile a ricordare ed identificare determinati fenomeni rintracciabili ancora oggi. Dimostra d’essere specchio autentico della società che rappresenta e parte integrante del linguaggio espressivo, culturale e artistico condiviso dalla società rappresentata. La funzione didascalica del dato musicale, la gestione del materiale sonoro pre-esistente, l’aggiunta, in post produzione, di brani affini al genere musicale di riferimento, il rifiuto di una colonna sonora originale composta ad hoc, sono elementi che partecipano alla costruzione del significato globale del film e risultano vincenti ai fini di una rappresentazione autentica del mondo preso in esame.
Lo stesso brano Got To Be Real, posto in dialogo con il tema della Realness e inserito nei titoli di coda, è utile per far emergere il posizionamento della regista nei confronti del contesto narrato. Got To Be Real appare come un empatico invito sia nei confronti dei protagonisti, nell’essere più ‘reali’ possibili nella speranza di congiungersi con il mondo desiderato, sia nei confronti dello spettatore, che è portato a chiedersi cosa sia ontologicamente ‘reale’.
Paris Is Burning ebbe il merito di dare visibilità alla ball culture e avviare quel processo di riconoscimento e accettazione auspicato da mothers e children, permettendo loro di lasciare una traccia indelebile del proprio passaggio: si pensi alla già citata Venus Xtravaganza, a Paris Dupreé, a Dorian Corey, a Pepper LaBeija, o ad Angie Xtravaganza, a cui è dedicata una celebre traccia house intitolata “X”.20 Attraverso campionatori e sequencer, svariate frasi tratte dalle interviste, sono divenute iconiche tanto da essere campionate e remixate in nuove forme, che ancora non si esauriscono. Si pensi per esempio al brano house Be Somebody21 a cui Octavia Saint Laurent presta la voce recitando la frase tratta da Paris Is Burning: “I want to be somebody. I mean, I am somebody. I just want to be a rich somebody”.
Tra tutti, chi più poté beneficiare della popolarità acquisita fu Willi Ninja, “the mother of the House of Ninja”, ballerino e coreografo di voguing; significativa eredità di Paris Is Burning.
Il voguing è uno stile di ballo che prende il nome dalla celebre rivista di moda e deriva da uno ‘scimmiottamento’ e una teatralizzazione dei gesti plastici e delle pose da passerella delle modelle; divenire modelle, celebrità, performer, era un sogno condiviso nelle ‘case’. Citando Willi Ninja: “I don’t want to take vogueing just to Paris Is Burning, I want to take it to the real Paris and make the real Paris burns”.22 Grazie alla rapida circolazione dei prodotti culturali, dapprima a New York e poi a livello internazionale, il sogno in breve tempo si realizza. Nel 1990 viene pubblicato il singolo di Madonna intitolato Vogue23, una hit che raggiunge il primo posto in classifica in ben 39 Paesi.
Quello che gli anni Novanta raccolgono non sono altro che i frutti maturi di alberi già cresciuti e radici già affondate nel terreno, ciò permette ad una cantante bianca e benestante come Madonna di appropriarsi culturalmente di un fenomeno identitariamente lontanissimo da lei. Ma la cantautrice statunitense non è la sola; nove mesi prima, Malcom McLaren, produttore discografico e artista genre-fluid, amante dell’hip-hop e del punk, pubblica “Deep in Vogue”.24
McLaren incontra Jennie Livingston durante le riprese del film e rimane profondamente segnato dall’estetica vogue. Nel 1989 decide di produrre un brano iconico sia per i ballerini di vogue che per la comunità queer, a cui Willi Ninja aggiunge le voci. L’incipit “This has got to be a special tribute to the houses of New York” omaggia le houses e i walkers presentati dalla regista Jennie Livingston che, a sua volta, offre un cameo al brano inserendo un estratto del videoclip, da lei stessa girato, nella sezione finale del film. Tale inserimento aggiunge ad una colonna sonora già ricca di brani iconici, una traccia intramontabile della musica disco.
Ancora oggi, la pratica del voguing è presa dall’assalto dall’industria musicale. Due cantanti native di Harlem si avvalgono di ballerini di voguing per i loro videoclip: la rapper Azealia Banks in 1991 (Justin Mitchell, 2012) e la poliedrica Teyana Taylor in WTP (Teyana Taylor, 2019) che, con il contributo del genderless Mykki Blanco nel ruolo di MC, omaggia Paris Is Burning e i suoi protagonisti inserendo alcune frasi pronunciate da Venus Xtravaganza. O ancora, FKA twigs porta la pratica del voguing in universo mistico; nel videoclip “Glass & Patron” (FKA twigs, 2015) uno spazio audiovisivo è dedicato ad un walking in passerella in stile Paris Is Burning.
Anche l’industria televisiva è debitrice di questa estetica. La serie tv Pose (2018 – in produzione), ideata da Ryan Murphy e Steven Canals, è quella che meglio riesce a far evolvere il progetto seminale di Paris Is Burning. Non solo si avvale della consulenza della Livingston e di alcuni degli insiders già presenti nel docufilm, ma inserisce anche la quasi totalità dei brani presenti nella sua colonna sonora. Anche in Pose la musica è onnipresente e ha una funzione linfatica per la costruzione della comunità e degli atti performativi, andando a confermare quanto già rilevato in Paris Is Burning. Vi sono molte citazioni, tra cui un’ampia riflessione sul divario economico tra whiteness e blackness, che rende complicato riconoscere quale ‘realtà’ tra le due sia definibile come ‘autentica’. Sia bianchi che neri, sebbene in modi diversi, fingono e pretendono continuamente di essere chi non sono.
Ciò che Pose aggiunge è un maturo approfondimento di tematiche solo accennate in Paris Is Burning: prostituzione, spaccio e consumo di droga, sieropositività e AIDS. A quest’ultimo è riservato un intero episodio dal titolo Love Is The Message, citando il brano presente in Paris Is Burning e ossessivamente riprodotto dall’MC Pray Tell (Billy Porter) in Pose, il quale si trova a dover affrontare la perdita del suo compagno a causa dell’AIDS.
Tuttavia, Pose non è il primo tentativo di avvicinamento ad un pubblico ampio e internazionale. Già RuPaul's Drag Race (2009 – in produzione), reality show condotto dalla drag queen RuPaul e basato sul format di America’s Next Top Model (2003 – in produzione), sfrutta l’aspetto competitivo dei balls facendo sfidare, a suon di sfilate, un gruppo di drag queen. RuPaul's Drag Race ri-media molta della terminologia già presentata in Paris Is Burning, tra cui il termine Realness (Heller 2018), aggiorna le categorie in competizione, dà visibilità alle queens e rende il fenomeno mainstream più di quanto abbia potuto fare Jennie Livingston con Paris Is Burning. Tuttavia, è opportuno chiedersi se il genere del reality, in quanto ennesima simulazione del reale, sia in grado di comunicare l’importanza a livello artistico e performativo della ball culture. RuPaul, mentre parodia la supremazia bianca, eterosessuale e cisgender, in un certo senso promuove la sua ricerca, dando in pasto un caposaldo della performatività queer al pubblico generalista. Il rischio è quello che Judith Butler (1996: 126) evidenziava già in Paris Is Burning, cioè che “la performance diventi un feticcio esotico, dal quale gli spettatori prendono le distanze”, trasformandola in una mera forma di intrattenimento. Una problematicità legata a questo tipo di appropriazione risiede nel dimenticare la provenienza del contesto storico e sociale che si vuole emulare. Oggi le libertà sono maggiori e il senso è cambiato, se prima la ball culture si basava su un complesso sistema di performatività e risignificazione delle norme coercitive, utile alla resilienza degli insiders, oggi risulta essere più figlia del divertissement che del ricordo, diventando oggetto del consumo di massa. Il controprodotto di un prodotto genuino e autentico.
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First Choice, “Let No Man Put Asunder” (Single), Salsoul Records,1983.↩︎
Eurythmics, “Sweet Dreams (Are Made of This)” in Sweet Dreams (Are Made of This), RCA, 1983.↩︎
Loose Joints, “Is It All Over My Face” (Single), West End Records, 1980.↩︎
Marshall Jefferson, “Move Your Body” in The House Music Anthem, Trax Records, 1986.↩︎
La traccia contiene samples di “Love Is The Message” degli MFSB (1973) e “Ooh I Love It” della Salsoul Orchestra (1976).↩︎
Marshall Jefferson, I Was There When The House Took The World, 2017, 00:37:42 – 00:38:14.↩︎
J. Livingston, Paris Is Burning, 1990, 00:53:05.↩︎
Noel, “Silent Morning”, 4th & Broadway, 1987.↩︎
The Festival Symphony Orchestra, “Triumphal March From Aida” in Stirring Marches (The Festival Library Of The World's Most Beautiful Music, No. 5), Columbia Special Products.↩︎
J. Livingston, Paris Is Burning, 1990, 00:41:27 – 00:41:56.↩︎
Cheryl Lynn, “Got To Be Real” / “Come In From The Rain” (Lynn, Foster, Paige / Sager, Manchester), 1978.↩︎
J. Livingston, Paris Is Burning, 1990, 00:18:11.↩︎
Ibidem, 00:18:27.↩︎
Frase tratta dal brano “I Am What I Am” composto da Jerry Herman per il musical La Cage aux Folles (1983), interpretato da una drag queen che rivendica la sua libertà di espressione. Il medesimo anno dell’uscita del musical l’icona gay Gloria Gaynor ne presenta una versione disco, all’interno del suo album I Am Gloria Gaynor per l’etichetta Chrysalis.↩︎
J. Livingston, Paris Is Burning, 1990, 00:50:27.↩︎
Ibidem, 00:21:50 – 00:22:04.↩︎
J. Livingston, Paris Is Burning, 1990, 00:14:18 – 00:14:47.↩︎
Barbara Mason, “Another Man” (Butch Ingram), Streetwave, 45rpm.↩︎
Junior Vasquez, “X”, TRIBAL America, 1994.↩︎
House of Wallenberg, “Be Somebody” (feat. Octavia St Laurent), Legends, Mums Mums Records, 2013.↩︎
J. Livingston, Paris Is Burning, 1990, 00:38:50.↩︎
Madonna, “Vogue”, Sire, Sire, 1990.↩︎
Malcolm McLaren And The Bootzilla Orchestra, “Deep in Vogue/Waltz Darling” (McLaren/LeBolt), Epic, 1989.↩︎