Cinema Rediscovered è un festival di Bristol ispirato, come non si dimentica mai di ripetere il fondatore Mark Cosgrove, al Cinema Ritrovato di Bologna. A differenza del ricchissimo festival bolognese, il ben più piccolo Cinema Rediscovered non può contare su un’offerta altrettanto vasta, ma è comunque in grado di fornire un programma interessante incentrato sull’idea della ri-circolazione di film del passato. Dal 25 al 28 luglio Cinema Rediscovered ha portato nelle sale del media center Watershed un programma di film non necessariamente antichi, ma poco visibili. L’obiettivo del festival è infatti far emergere e ricontestualizzare la produzione sotterranea, invisibile o semplicemente mal distribuita di cinematografie più o meno periferiche, anche se non sono mancate retrospettive di richiamo come quella di quest’anno dedicata a Nicolas Roeg.
L’interesse per il cinema meno conosciuto ha generato nel programma del festival una sorta di sottocategoria trasversale di cineaste donne da riscoprire: Věra Chytilová, Ester Krumbachová, Márta Mészáros, un focus su Maureen Blackwood, e il bonus di un mini-retrospettiva su Alice Guy-Blaché. Approcci formali e idee di cinema tra loro diversi ma ugualmente interessati a disinnescare i ruoli di genere e a sottolineare la politicizzazione intrinseca alla messa in scena del proprio sguardo, in un ideale filo conduttore tra visibilità e militanza.
Direttamente dalla Nová vlna le registe ceche Věra Chytilová e Ester Krumbachová sono comparse nel programma tematico Gluttony, Decadence and Resistance, dedicato al cinema che racconta l’eccesso e l’ingordigia, che sia per denunciare la decadenza della società o per criticare la morigeratezza borghese. Accanto ai classici di Ferreri e Greenaway, la retrospettiva ha dedicato spazio a una prospettiva femminile e politica sul tema della voracità, necessariamente anche sentimentale e sessuale, interconnessa alla riflessione sugli stereotipi dei ruoli di coppia.
Il cinema dirompente di Věra Chytilová è passato anche dal Cinema Ritrovato nel 2013, con Le margheritine. A Bristol è stato proiettato il suo film successivo Fruit of Paradise (Ovoce stromů rajských jíme, 1970), una rivisitazione del mito di Adamo ed Eva e del tema biblico del peccato, meno famoso e forse meno compiuto di Sedmikrásky ma ugualmente intriso di vitalità e assurdo, tanto da essere bandito dalla Cecoslovacchia (allora sotto il controllo sovietico) fino al 1975. Una libertà narrativa e formale espressa fin dalle prime sequenze con tecniche che mescolano sovrimpressioni, disegno e collage, e tramite un uso assolutamente inventivo dei set naturali, dai boschi, ai corsi d’acqua, alle spiagge. Il conformismo matrimoniale e patriarcale rappresentato da Josef è scosso dalla passione di Eva nei confronti della mina vagante Robert, opportunista, persona poco raccomandabile, e probabilmente omicida seriale. I personaggi sono figure definite dal continuo movimento, ben rappresentato dalla bici che Robert guida in ogni tipo di spazio, e dagli inseguimenti di Eva, almeno fino alla sua presa di coscienza. Fruit of Paradise non si interessa di un andamento ordinario del racconto, ma si presenta come un’abbuffata di situazioni e riferimenti che dileggiano ogni conformismo.
Costumista e sceneggiatrice, collaboratrice abituale di Věra Chytilová, Ester Krumbachová si cimenta una sola volta con la regia: il risultato è The Murder of Mr. Devil (Vrazda ing. Certa, 1970), in cui Ona riceve la chiamata e poi la visita di un conoscente del passato, un potenziale love interest insaziabile da compiacere prima di tutto dal punto di vista culinario. Tutto girato negli interni della casa di lei, dove oltre all’abbondanza di cibi anche ogni oggetto di arredamento è consumabile, in una sorta di famelica appropriazione per ingestione dello status borghese, The Murder of Mr. Devil è un “film da camera” satirico che identifica il maligno nella forma di un uomo ingordo – di nome Certa, “diavolo” in ceco – ma che non risparmia la servile e vezzosa Ona, fin quando persino per lei la misura sarà colma.
Spostandosi di un decennio nell’Inghilterra thatcheriana, il focus sulla regista femminista Maureen Blackwood, co-fondatrice nel 1983 del collettivo di filmmaker neri Sankofa Film and Video, ha offerto la possibilità di vedere The Passion of Remembrance (1986) un sorprendente lungometraggio a metà tra il film-saggio e la commedia familiare. Sullo sfondo delle insurrezioni anti-Thatcher della comunità nera nella prima metà degli anni Ottanta, contro la disoccupazione crescente e le discriminazioni razziali, il film mette in scena una famiglia, genitori immigrati di origine caraibica e figli studenti e attivisti, i loro amici, e le divergenze tra gli uni e le altre su varie sfumature della militanza. In particolare, sono rappresentati personaggi gay e donne femministe da un lato per sottolineare le traiettorie trasversali di razzismo, sessismo e omofobia all’interno della working class inglese e dei movimenti, dall’altro per evidenziare la necessità, per chi si dichiara attivista e militante, di riconoscere l’intersezione tra le diverse forme di oppressione, e distanziarsene decisamente. Un potente esempio di film politico che padroneggia tutti gli elementi e i riferimenti che sceglie di usare, dai documenti d’archivio, al teatro, alla sit-com.