L'unica innovazione del festival di Venezia negli ultimi dieci anni è la sua sezione “Venice Virtual Reality”, che si tiene dal 2017 sull'isola del Lazzaretto Vecchio. La cornice, come si dice in questi casi, è splendida: un edificio vuoto carico di storia, un cortile interno dove bere gli spritz, la vista sulla laguna. Il fatto che “Venice VR” sia collocato su un lazzaretto può banalmente essere interpretato come un indizio metaforico sullo status detenuto dal VR nel panorama audiovisivo contemporaneo: qualcosa di interessante, degno di essere inserito in una mostra d'arte cinematografica, ma al contempo da lasciare in quarantena, in attesa di capire se sia sano oppure no. Di sicuro c'è il rischio che sia contagioso.
Il VR rimane un campo ibrido fra cinema, gioco, esperienza, azione: un VR a volte si guarda, a volte si gioca, a volte si performa, a volte tutte le cose insieme. Le esperienze VR del Lazzaretto si dividono tra Stand Ups (da fruire in piedi, nei corridoi), Installations (stanzette dedicate) e VR Theatre (uno spazio grande con tante seggioline in cui gli accreditati possono indossare il visore e fruire della loro esperienza individuale). I VR sono inoltre presentati come lineari (dove lo spettatore tutto sommato “spectat” come in un film tradizionale) o interattivi (dove sono richiesti interventi degli utenti, tramite movimenti, bottoni o manopole, per attivare la realtà). La tradizionale divisione tra narratologia e ludologia non è ancora davvero superata.
Una volta indossato il visore, tutta la suggestione del Lazzaretto Vecchio sparisce. Lascia il posto a un altro tipo di fascinazione, dei cui passi da gigante tecnologici ci si può rendere conto nel corso delle visite annuali a Venice Virtual Reality. Dal Lazzaretto si salta in un carcere torinese (VR Free, di Milad Tangshir), o nella città del futuro di Ghost in the Shell: Ghost Chaser (di Hiroaki Higashi). Per il dispositivo è la stessa cosa. In entrambi i casi si è divisi tra la percezione di altro assoluto e la ragionevole certezza della sedia girevole su cui si è seduti. Nel primo VR si è prigionieri, costretti fra anguste pareti; nel secondo ci si muove in un mondo-ottovolante a ritmi di vertigine, anche letterale, nella forma fisica del mal d'auto.
Le installazioni che prevedono i cubicoli si presentano come nuovi gabinetti delle curiosità, provvisti di oggetti di scena e scenografie. All’interno di un festival, con i numeri che esso macina, il problema di fruizione è evidente: il VR è attualmente lontano dall'essere un mass medium. Si va, per ogni installazione, dai 20 ai 50 spettatori al giorno. Ogni traccia di visione collettiva (quella che anticamente si associava ai festival) risulta inoltre perduta. L'unico modo per recuperarla è commentare ex-post l'esperienza con gli altri spettatori. Mi è sembrato di notare una voglia diffusa, quasi un bisogno, di raccontare o condividere ciò che si è vissuto, come se fosse l'unico modo di realizzare l'esperienza, di provarla vera, di non relegarla alla dimensione del gioco solipsistico.
La sfera del dialogo, puro e semplice dialogo, è anche quella adottata, facendo di necessità virtù, quando le prenotazioni e le code hanno reso impossibile la fruizione dei VR. Il modo più semplice per capire in cosa consisteva un'esperienza era chiederne conto alle “maschere” – se vogliamo ancora chiamare così gli addetti alle prenotazioni e all'accompagnamento degli spettatori nei cubicoli o negli stand-up. Le maschere erano ben liete non solo di far intravvedere a parole in cosa consistesse il VR da loro amministrato, ma anche di raccontare come si comporta il fruitore medio e cosa combina il fruitore eccentrico.
Visti da fuori, si osservano esseri umani che, appena indossato un visore, iniziano a compiere gesti innaturali, che li rendono ridicoli, mossi da una “realtà” che esiste solo per loro. Si tratta della stessa impressione della prima epoca dei telefonini: gente che parla in strada, gente che parla da sola? Come di fronte a ogni grande innovazione tecnologica, occorre abituarsi al nuovo tipo di comportamento da essa generato.
All'interno di questo contesto, un film particolarmente interessante (e problematico) è Battle Hymn, dell'israeliano Yair Agmon, un VR lineare da fruire nel VR Theatre. Indossando il visore, ci si trasforma in un soldato dell'IDF che si reca con la sua piccola pattuglia di forze speciali in un villaggio palestinese ad arrestare un sospettato. Tutto ciò che si vede è la sua soggettiva. Si interpreta e ci si identifica con il soldato e la sua missione.
Il comandante fa un appello, ti guarda in faccia, ti chiede di rispondergli. Si sale su un furgone, da cui si scende, Uzi alla mano, in un villaggio nei Territori Occupati. Una famiglia palestinese è svegliata nel cuore della notte. La madre e tre figli vengono fatti scendere in cortile. La madre, sconvolta, ti fissa dritta negli occhi, con odio. Mentre sei il destinatario di questo sguardo angosciante da cui è impossibile sfuggire, il comandante ti ordina di guardare da un’altra parte, di sorvegliare senza distrazioni una finestra. Tu ubbidisci un po’ stupidamente all’ordine, ma ogni tanto controlli se la madre continua a trafiggerti con lo sguardo, e vieni per questo rimproverato.
Nella casa i soldati trovano un uomo. Il prigioniero viene caricato sul furgone. Si riparte, si torna indietro. Il prigioniero viene fatto scendere e tenuto in custodia. Il palestinese (bendato) si mette a cantare, e tutti i soldati intorno a lui, intorno a noi, accompagnano con degli strumenti il suo canto. Quel gruppuscolo squilibrato prodotto da un atto violento è capace di fare musica insieme.
Il breve resoconto qui sopra passa maldestramente dall'impersonale alla seconda persona alla prima. L’enigma posto dal VR deriva tutto da questa confusione. Battle Hymn è potente, perturbante. Il coinvolgimento emotivo è inevitabile. Si è scissi tra adesione al ruolo e senso di colpa. Ma cosa vuole farmi provare il VR? Vuole che mi identifichi con il soldato? Con la sofferenza del soldato? Vuole farmi sentire addosso lo sguardo carico di odio (è il vero punctum del video) di un'affranta, stupita e incolpevole madre palestinese?
Nel cinema israeliano questa ambiguità ideologica costituisce una specie di luogo comune, un tropo vagamente ricattatorio che è stato definito “shooting and crying”: prima si spara e si uccide e poi si piange maledicendo il destino che rende crudeli. Battle Hymn è uno shooting and crying next level, perché il processo di identificazione del VR ti fa vivere in prima persona la pressione psicologica, l’inesorabilità delle azioni, l’impossibilità di ricorrere alla disubbidienza o al rifiuto.
Siamo nel contesto di una battaglia, e la percezione di conflitto si moltiplica e moltiplica. È un conflitto di esperienze: sono al Lazzaretto Vecchio ma mi sembra di essere in un villaggio palestinese; di identità: mi vedo nel corpo di un altro; di confidenza mediale: sto vedendo un film lineare (dopo tutto Battle Hymn ha lo stesso titolo di un film di Douglas Sirk del 1957) o partecipando a un’operazione che mi coinvolge? Il conflitto, infine, è ideologico: da che parte sto? Voglio davvero sentire, ancora una volta e sulla mia pelle, quali e quanti sensi di colpa deve gestire un soldato israeliano? Non saranno i dannati affari di chi partecipa a quella guerra? Verrebbe persino voglia di invocare una sciocca par condicio per vedere la stessa scena indossando gli occhi del prigioniero palestinese. Come sostiene Slavoj Žižek (L’epidemia dell’immaginario), nell'ideologia si può avere la botte piena e la moglie ubriaca: la forza trascinante dell'ideologia sta proprio nella sua incoerenza. Una volta “tornato alla realtà”, rimane addosso una sensazione persistente di appiccicaticcio, come se avessi sfiorato della carta moschicida.
Occorre dunque imparare a conoscere, maneggiare, gestire, decifrare – come suggerisce Federico Giordano (in Body images in the post-cinematic scenario) – i “livelli di propaganda e controllo che possono essere esercitati sul pubblico da questi dispositivi”, la loro dimensione simbolica e ideologica. I VR non sono più solo dei gimmick ludici o pratici. Le loro potenzialità sono sconfinate. Per l'apocalittico il giudizio è presto detto: il Lazzaretto contiene una piaga, la nuova peste desinata presto a contagiarci tutti. Arriveranno paradisi artificiali ancora più potenti di questi, capaci di dare un piacere al cui confronto la vita reale sarà incommensurabilmente povera, secca, banale. L'integrato si incarna nella figura del nerd – il prodotto inevitabile di ogni dispositivo tecnologico. Quello da me incontrato guida i festivalieri (alcuni dei quali cinefili sperduti) fra consigli, trucchi, informazioni e giudizi, con competenze maggiori rispetto all’information desk ufficiale. È lì da giorni, non si è mai mosso dall’isoletta, li ha provati tutti. Il nerd cerca le difficoltà, i VR difficili, e osserva un po' stizzito chi manipola quegli strumenti senza saperli addomesticare. Il discorso si fa tecnico e lungo. Come in ogni soliloquio (“pezza”) da nerd, il fascino per il dispositivo prevale sul fascino per i contenuti. Lo abbandono con una scusa. Lo rivedo ore dopo mentre, come un umarell, guarda con perplessità e commiserazione un ragazzo che sta aprendo i cassetti sbagliati in un faro virtuale.